50 ANNI FA MORIVA ELIO VITTORINI
UNO SCRITTORE TRA CONFORMISMO ED ERESIA
di Pierfranco Bruni
UNO SCRITTORE TRA CONFORMISMO ED ERESIA
di Pierfranco Bruni
Elio Vittorini nasce nello stesso anno di Cesare Pavese. Un segno tangibile nella storia del Novecento letterario italiano. Il Sud e il Nord recitano la malinconia e l’inquieto della parola tra i naviganti che disegnano racconti. Indubbiamente la figura e l’opera di uno scrittore (e di un operatore culturale a tutto campo) come Elio Vittorini andrebbero riconsiderate. C’è un dibattito in atto (che non riguarda comunque solo Vittorini ma la lista si allunga e va da Pavese a Carlo Levi: sì, proprio il Carlo Levi del Cristo si è fermato ad Eboli, quello considerato per “eccellenza” un antifascista, da Gadda a Piovene, da Morselli a Buzzati, da Morante a Parise) nel quale si deve porre al centro dell’attenzione un processo che non può essere solo letterario ma deve avere (perché ci sono) delle “implicazioni” di ordine culturale in senso generale ma anche di ordine politico. Il caso di Vittorini è tutto giocato sul rapporto cultura - politica.
In modo particolare su come lo scrittore, nato a Siracusa il 23 luglio 1908 e morto a Milano il 12 febbraio 1966, (a 50 anni dalla morte), concepiva il ruolo della cultura. Una cultura che non poteva e non doveva (e non deve) essere subalterna alla politica. Più volte Vittorini ha affermato la funzione prioritaria del fare cultura dentro la politica dando anche un senso etico alto alla visione della presenza politica nella società. Ciò, Vittorini, lo ha affermato da fascista (da fascista di sinistra, si obietta) negli anni del “suo” fascismo. Ciò lo ha affermato quando si trovava vicino agli ambienti comunisti. Ciò è stato sottolineato in un mio libro edito dalla Nemapress qualche anno fa dal titolo “La sfida dello scrittore”.
Una lunga battaglia. Ha sempre rivendicato, nonostante le sue posizioni e le sue passioni, un ruolo fondamentale alla libertà della cultura. Tanto che ha scatenato, come si sa, l’ira di Togliatti quando dirigeva l’importante voce del “Politecnico”. Ma aderì al fascismo, senza alcun dubbio, non per spirito di cordata bensì nelle sue posizioni culturali vi erano delle impostazioni etiche. Aprì successivamente nel versante di sinistra un taglio (un taglio anche generazionale) che doveva provocare una forte dialettica. Ma fu fermato.
Giovanni Raboni, recensendo, sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2001, il libro di Crovi che sottolinea vittorianamente il rapporto “cultura e libertà” ripropone questo taglio e afferma: “In realtà Vittorini dal Pci non ebbe il bisogno d’andarsene perché, semplicemente, non c’era mai stato; o meglio, c’era stato, (pur non prendendone mai, credo, la tessera) ma solo con il cuore, non con la testa; e fu precisamente questo, negli anni che seguirono e fino alla sua morte prematura (febbraio ’66), a dare un particolare peso e un particolare significato al suo modo di intendere e praticare ciò che si chiamava allora (e non ci sarebbe niente di male, secondo me, a chiamare ancora) l’ ‘impegno intellettuale’”.
Il fatto più importante in tutto questo nuovo percorso che ci porta ad una rilettura degli scrittori del Novecento è che spontaneamente si allontanarono dal comunismo. E Vittorini fu, in un certo senso, un po’ profetico. Ruppe con Togliatti sul piano culturale mantenendo sempre una coerenza progettuale in termini libertari. La cultura o è libertà o non è. Così il ruolo dello scrittore. C’è una attenta osservazione di Vittorini nella quale si ascolta: “Uno scrittore, lo voglia o no, è sempre socialmente e politicamente impegnato, tra le righe della sua opera… ma a parte questo impegno fatale d’ogni lavoro creativo è certo desiderabile che lo scrittore intervenga esplicitamente e prenda posizione nelle contese civili del suo paese. Non di continuo tuttavia. Non ogni volta che il gallo canta. Io anzi raccomanderei di farlo solo nei momenti di emergenza. Altrimenti succede che lo scrittore se ne fa un vezzo, un puntiglio, un abito e l’abito è un callo intorno alla mente che ne riduce e può addirittura annullare la sensibilità storica e ideologica”.
Non si tratta di una raffigurazione di un intellettuale organico politicamente. Anzi il disegno è piuttosto quello di un intellettuale libero pronto però ad intervenire senza lasciarsi condizionare. Dà, comunque, allo scrittore la funzione di un intellettuale vero e proprio. Ebbene, possono esserci aspetti condivisibili o meno (proprio sul rapporto intellettuale - scrittore o sulla simbiosi dello scrittore nell’intellettuale: trattasi di una visione vittoriniana che non è quella di altri scrittori del suo tempo come, per esempio, Pavese) ma Vittorini considera il lavoro culturale come un impegno e quindi anche il dato creativo risulta uno degli impegni intellettivi che rientrano, appunto, nella funzione dell’intellettuale.
Pur non condividendo fino in fondo la posizione di Vittorini (su questo versante) ho sempre nutrito una stima particolare per il coraggio di alcune scelte maturate non su impostazioni ideologiche ma su tracciati interamente culturali. La divisione degli intellettuali ex comunisti separati in due tronconi (di cui parla Raboni riferendosi ad un articolo raccolto da Crovi) che ne fa Vittorini è, vista nel contesto attuale, emble-matica. Profetica allora. Ci sono quelli che hanno considerato il comunismo come un Dio e quindi oggi lo valutano come un Demone, ovvero un Diavolo. Ci sono quelli “che hanno considerato il comunismo entro limiti umani” nel momento in cui vi aderivano e quindi “umanamente” non lo accettano più.
Non si tratta di una abiura ma di una presa d’atto, ovvero di un atto di consapevolezza che Vittorini affidava alle pagine de “La Stampa” nel 1951. I grandi fatti che si verificheranno con il Congresso ventesimo del comunismo moscovita e internazionale sono di là da venire. Eppure Vittorini aveva detto tutto, addirittura si era spinto anche oltre. Quelle sue parole sembrano scritte oggi. E nulla valse l’ironia di Togliatti.
Vittorini lasciò i “compagni” convinto della libertà che bisogna dare alla cultura e sprezzante Togliatti commentò in un articolo rimasto famoso: “Vittorini se ne ghiuto e soli ci ha lasciati”. Ma questo Vittorini era lo stesso di quello che aveva scritto Garofano rosso e che aveva fatto dire al suo personaggio Alessio Mainardi, dopo l’uccisione di Matteotti, “troppo fiero di essere fascista”. Un po’ alla Malaparte, inquieto e dannato. Ma fascista lo fu veramente. Senza ombra di dubbio. Tanto che venne espulso. Ma continuò a scrivere liberamente sui giornali di quel tempo. Fu tanto per un organizzatore di cultura che poneva al di sopra di tutto la libertà. Con Togliatti non gli fu possibile.
Ecco cosa scrive Giulio Ferroni, storico della letteratura non chiaramente di parte o sospettabile ideologicamente: “Insieme ad altri fascisti di sinistra ed ex fascisti (…) seguì con drammatica partecipazione gli eventi della guerra civile di Spagna schierandosi dalla parte dei repubblicani e criticando il sostegno dell’Italia fascista alle forze reazionarie e clericali: divenuto elemento sospetto, venne espulso nel ’36 dal partito fascista. Si accostò allora all’opposizione antifascista e ai gruppi comunisti clandestini: e mentre continuava a svolgere un massacrante lavoro editoriale, scrisse il suo libro più significativo, Conversazione in Sicilia, apparso su ‘Letteratura’ tra il ’38 e il ’39. Nel 1939 si trasferì a Milano, dove cominciò a lavorare per Bompiani e per altri editori…”.
Anni cruciali di intenso lavoro culturale. Si pensi anche al lavoro di traduttore svolto in quegli anni. Da Lawrence a Poe, da Faulkner a Steinbeck. Da Defoe a Caldwell. Ma tutto sommato credo che la sua presenza di scrittore (io faccio questa separazione al contrario dello stesso Vittorini) sia più rilevante di quella di operatore culturale. I suoi testi narrativi confrontati con la sua visione teorica e critica dell’impegno dell’intellettuale hanno una rilevanza maggiore e in molte occasioni si respira una impostazione contradditoria. Conversazione in Sicilia non è il libro scritto da un intellettuale. E’ piuttosto un testo scritto da un poeta. La sua visione realista è in netto conflitto con una forte tensione poetica che aleggia nel libro. Come pure il bel Viaggio in Sardegna ripubblicato successivamente con il titolo Sardegna come un’infanzia o ancora Le donne di Messina.
Percorsi lirici che hanno una valenza onirica. Ma Vittorini, come scrittore, resta un testimone del raccordo tra memoria e racconto lirico. L’intellettuale è un’altra cosa dello scrittore che cesella: “I piccoli siciliani, curvi con le spalle nel vento e le mani in tasca, mi guardavano mangiare, erano scuri in faccia, ma soavi, con barba da quattro giorni, operai, braccianti dei giardini di aranci, ferrovieri con i capelli grigi a filetto rosso della squadra lavori. E io, mangiando, sorridevo loro e loro mi guardavano senza sorridere”.
Rileggiamolo questo ricercare “in viaggio”, una “conversazione” che ci porta al centro del nostro esistere. Lo scrittore e l’intellettuale. Dove comincia lo scrittore e dove subentra l’intellettuale. Riconsiderarlo significa anche capire di più senza lo sguardo ideologico. La malinconia e l’inquietudine. Il viaggio nella cifra del destino. O forse un intreccio che ha segnato un’intera epoca.
In modo particolare su come lo scrittore, nato a Siracusa il 23 luglio 1908 e morto a Milano il 12 febbraio 1966, (a 50 anni dalla morte), concepiva il ruolo della cultura. Una cultura che non poteva e non doveva (e non deve) essere subalterna alla politica. Più volte Vittorini ha affermato la funzione prioritaria del fare cultura dentro la politica dando anche un senso etico alto alla visione della presenza politica nella società. Ciò, Vittorini, lo ha affermato da fascista (da fascista di sinistra, si obietta) negli anni del “suo” fascismo. Ciò lo ha affermato quando si trovava vicino agli ambienti comunisti. Ciò è stato sottolineato in un mio libro edito dalla Nemapress qualche anno fa dal titolo “La sfida dello scrittore”.
Una lunga battaglia. Ha sempre rivendicato, nonostante le sue posizioni e le sue passioni, un ruolo fondamentale alla libertà della cultura. Tanto che ha scatenato, come si sa, l’ira di Togliatti quando dirigeva l’importante voce del “Politecnico”. Ma aderì al fascismo, senza alcun dubbio, non per spirito di cordata bensì nelle sue posizioni culturali vi erano delle impostazioni etiche. Aprì successivamente nel versante di sinistra un taglio (un taglio anche generazionale) che doveva provocare una forte dialettica. Ma fu fermato.
Giovanni Raboni, recensendo, sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2001, il libro di Crovi che sottolinea vittorianamente il rapporto “cultura e libertà” ripropone questo taglio e afferma: “In realtà Vittorini dal Pci non ebbe il bisogno d’andarsene perché, semplicemente, non c’era mai stato; o meglio, c’era stato, (pur non prendendone mai, credo, la tessera) ma solo con il cuore, non con la testa; e fu precisamente questo, negli anni che seguirono e fino alla sua morte prematura (febbraio ’66), a dare un particolare peso e un particolare significato al suo modo di intendere e praticare ciò che si chiamava allora (e non ci sarebbe niente di male, secondo me, a chiamare ancora) l’ ‘impegno intellettuale’”.
Il fatto più importante in tutto questo nuovo percorso che ci porta ad una rilettura degli scrittori del Novecento è che spontaneamente si allontanarono dal comunismo. E Vittorini fu, in un certo senso, un po’ profetico. Ruppe con Togliatti sul piano culturale mantenendo sempre una coerenza progettuale in termini libertari. La cultura o è libertà o non è. Così il ruolo dello scrittore. C’è una attenta osservazione di Vittorini nella quale si ascolta: “Uno scrittore, lo voglia o no, è sempre socialmente e politicamente impegnato, tra le righe della sua opera… ma a parte questo impegno fatale d’ogni lavoro creativo è certo desiderabile che lo scrittore intervenga esplicitamente e prenda posizione nelle contese civili del suo paese. Non di continuo tuttavia. Non ogni volta che il gallo canta. Io anzi raccomanderei di farlo solo nei momenti di emergenza. Altrimenti succede che lo scrittore se ne fa un vezzo, un puntiglio, un abito e l’abito è un callo intorno alla mente che ne riduce e può addirittura annullare la sensibilità storica e ideologica”.
Non si tratta di una raffigurazione di un intellettuale organico politicamente. Anzi il disegno è piuttosto quello di un intellettuale libero pronto però ad intervenire senza lasciarsi condizionare. Dà, comunque, allo scrittore la funzione di un intellettuale vero e proprio. Ebbene, possono esserci aspetti condivisibili o meno (proprio sul rapporto intellettuale - scrittore o sulla simbiosi dello scrittore nell’intellettuale: trattasi di una visione vittoriniana che non è quella di altri scrittori del suo tempo come, per esempio, Pavese) ma Vittorini considera il lavoro culturale come un impegno e quindi anche il dato creativo risulta uno degli impegni intellettivi che rientrano, appunto, nella funzione dell’intellettuale.
Pur non condividendo fino in fondo la posizione di Vittorini (su questo versante) ho sempre nutrito una stima particolare per il coraggio di alcune scelte maturate non su impostazioni ideologiche ma su tracciati interamente culturali. La divisione degli intellettuali ex comunisti separati in due tronconi (di cui parla Raboni riferendosi ad un articolo raccolto da Crovi) che ne fa Vittorini è, vista nel contesto attuale, emble-matica. Profetica allora. Ci sono quelli che hanno considerato il comunismo come un Dio e quindi oggi lo valutano come un Demone, ovvero un Diavolo. Ci sono quelli “che hanno considerato il comunismo entro limiti umani” nel momento in cui vi aderivano e quindi “umanamente” non lo accettano più.
Non si tratta di una abiura ma di una presa d’atto, ovvero di un atto di consapevolezza che Vittorini affidava alle pagine de “La Stampa” nel 1951. I grandi fatti che si verificheranno con il Congresso ventesimo del comunismo moscovita e internazionale sono di là da venire. Eppure Vittorini aveva detto tutto, addirittura si era spinto anche oltre. Quelle sue parole sembrano scritte oggi. E nulla valse l’ironia di Togliatti.
Vittorini lasciò i “compagni” convinto della libertà che bisogna dare alla cultura e sprezzante Togliatti commentò in un articolo rimasto famoso: “Vittorini se ne ghiuto e soli ci ha lasciati”. Ma questo Vittorini era lo stesso di quello che aveva scritto Garofano rosso e che aveva fatto dire al suo personaggio Alessio Mainardi, dopo l’uccisione di Matteotti, “troppo fiero di essere fascista”. Un po’ alla Malaparte, inquieto e dannato. Ma fascista lo fu veramente. Senza ombra di dubbio. Tanto che venne espulso. Ma continuò a scrivere liberamente sui giornali di quel tempo. Fu tanto per un organizzatore di cultura che poneva al di sopra di tutto la libertà. Con Togliatti non gli fu possibile.
Ecco cosa scrive Giulio Ferroni, storico della letteratura non chiaramente di parte o sospettabile ideologicamente: “Insieme ad altri fascisti di sinistra ed ex fascisti (…) seguì con drammatica partecipazione gli eventi della guerra civile di Spagna schierandosi dalla parte dei repubblicani e criticando il sostegno dell’Italia fascista alle forze reazionarie e clericali: divenuto elemento sospetto, venne espulso nel ’36 dal partito fascista. Si accostò allora all’opposizione antifascista e ai gruppi comunisti clandestini: e mentre continuava a svolgere un massacrante lavoro editoriale, scrisse il suo libro più significativo, Conversazione in Sicilia, apparso su ‘Letteratura’ tra il ’38 e il ’39. Nel 1939 si trasferì a Milano, dove cominciò a lavorare per Bompiani e per altri editori…”.
Anni cruciali di intenso lavoro culturale. Si pensi anche al lavoro di traduttore svolto in quegli anni. Da Lawrence a Poe, da Faulkner a Steinbeck. Da Defoe a Caldwell. Ma tutto sommato credo che la sua presenza di scrittore (io faccio questa separazione al contrario dello stesso Vittorini) sia più rilevante di quella di operatore culturale. I suoi testi narrativi confrontati con la sua visione teorica e critica dell’impegno dell’intellettuale hanno una rilevanza maggiore e in molte occasioni si respira una impostazione contradditoria. Conversazione in Sicilia non è il libro scritto da un intellettuale. E’ piuttosto un testo scritto da un poeta. La sua visione realista è in netto conflitto con una forte tensione poetica che aleggia nel libro. Come pure il bel Viaggio in Sardegna ripubblicato successivamente con il titolo Sardegna come un’infanzia o ancora Le donne di Messina.
Percorsi lirici che hanno una valenza onirica. Ma Vittorini, come scrittore, resta un testimone del raccordo tra memoria e racconto lirico. L’intellettuale è un’altra cosa dello scrittore che cesella: “I piccoli siciliani, curvi con le spalle nel vento e le mani in tasca, mi guardavano mangiare, erano scuri in faccia, ma soavi, con barba da quattro giorni, operai, braccianti dei giardini di aranci, ferrovieri con i capelli grigi a filetto rosso della squadra lavori. E io, mangiando, sorridevo loro e loro mi guardavano senza sorridere”.
Rileggiamolo questo ricercare “in viaggio”, una “conversazione” che ci porta al centro del nostro esistere. Lo scrittore e l’intellettuale. Dove comincia lo scrittore e dove subentra l’intellettuale. Riconsiderarlo significa anche capire di più senza lo sguardo ideologico. La malinconia e l’inquietudine. Il viaggio nella cifra del destino. O forse un intreccio che ha segnato un’intera epoca.