Giorni e memorie di secoli fanno ormai storia e le
tartarughe sono silenzio tra le solitudine dei cammini nella Calabria dei giorni mai dimenticati...
Il cancello una volta si apriva al giallo, rosso, viola, verde dei peperoncini ed era una esplosione di sfumature. Non c’era il colore perfetto perché i colori non sono perfezione. Bisognava saper cogliere la luce. Anche i peperoncini sono nello specchio della luce.
Il cancello una volta si apriva al giallo, rosso, viola, verde dei peperoncini ed era una esplosione di sfumature. Non c’era il colore perfetto perché i colori non sono perfezione. Bisognava saper cogliere la luce. Anche i peperoncini sono nello specchio della luce.
Il
cancello una volta si apriva al giallo, rosso, viola, verde dei peperoncini ed
era una esplosione di sfumature. Non c’era il colore perfetto perché i colori
non sono perfezione. Bisognava saper cogliere la luce. Anche i peperoncini sono
nello specchio della luce.
Il giardino era un teatro. Si saliva e si scendeva da una scala inizio Novecento e si arrivava nella piazza del teatro e in dono si ricevevano le rose come pegno per una partenza che era sempre segnata dal ritorno.
È da mesi che ascolto e osservo quel giardino quando nei miei ritorni attraverso il vento che ha lo spazio di anni custoditi e persi. I peperoncini non ci sono più e i colori degli alberi non hanno il colore dell’impatto. Non hanno sfumature le pagine degli alberi.
Riavvolgo i giorni e ci sono memorie di secoli che fanno ormai storia.
Mio Capitano, mi avevi lasciato in dono delle tartarughe e mi avevi offerto una preghiera che era quella di custodirle, non solo lasciandole nel loro trascorrere le ore nei passaggi delle stagioni.
Mi rendo conto subito che scrivendo è come se ti scrivessi una nuova lettera, padre mio, mio Capitano…
Custodire. Dunque.
Già, come tu hai custodito per me il nostro giardino e ogni qual volta ritornavo dalle mie fughe – partenze – ritorni per te era sempre un orgoglio portarmi tra gli scoppi dei colori. Soprattutto d’estate. E in primavera i gigli alti e in inverno mi dicevi che bisognava tutti i giorni spazzare le foglie dalle aiole.
Mi avevi dato in dono delle tartarughe, proprio in quelle sere mentre facevi la conta dei gradini per raggiungere il settimo piano e ritrovare allora i due tuoi fratelli e gli zii, come ritornava spesso, in quelle ore, lo zio Giovannino d’America e dicevi di aver ritrovato il numero telefonico e con lui ti dovevi mettere in contatto, con zio Adolfo e il Mariano che era stato una guida, zio Mariano, e sempre impeccabile ironico me lo hai raccontato.
Ma voi siete stati cinque fratelli che avete anteposto alla leggerezza l’ironia e la leggerezza, invece, è stata contrapposta alla fatica di vivere, di esistere, di essere.
Tu, Adolfo, Mariano, Gino e Pietro.
Cinque fratelli che hanno solcato il cammino della dignità della lealtà della coerenza e della nobiltà come è nelle vostri origini.
Ad una mia domanda sulla leggerezza, tu mio Capitano, mi hai risposto:
“La leggerezza appartiene al vento e ne fa ciò che ritiene opportuno. Mentre noi dobbiamo avere tra le mani il vento. Come possiamo fare? Un tempo mi hai chiesto, e lo facevi spesso quando si andava a Cosenza, di trovarti, in una libreria di Cosenza, un libro dal titolo ‘Cent’anni di solitudine’. Mi sono domandato subito: ‘Come fa questo ragazzo a immergersi in un librone in cui si parla soltanto di solitudine… E poi di una solitudine che ha cento anni…’. Ti ho anche chiesto ciò. Ricordo. Dopo qualche anno mi lasciasti su uno dei miei tavoli di lavoro, lo hai fatto appositamente come sempre hai fatto quando volevi lasciarmi un messaggio senza parlarne, dello stesso autore, un libro in cui si parlava di un Patriarca. L’ho letto. In un tuo ritorno ti ho anche detto che se avessi voluto ti saresti potuto riprendere il libro che, involontariamente, ti eri scordato sul tavolo dove c’è la morsa, nei magazzini… Non hai replicato, mi hai detto semplicemente: Capitano guidami tra i peperoncini e raccontami come fare a distinguere l’uno dall’altro a parte i colori…!”.
Ricordo perfettamente questo nostro discorrere. Io e te parlavamo. Anche quando le nostre parole erano impregnate di silenzio. E poi andandotene via hai cercato di regale alcune cose alle quali tenevi molto. Due tartarughe piccole piccole a Paolo, qualcuna a Peppino di Terranova e le altre le avevi affidate a me, quelle piccole, ancora raccomandandomi come non farle morire…
Ebbene, non sono riuscito a tenere fede ai tuoi propositi. Non ti chiedo scusa, Capitano mio, ti dico soltanto che sono stato distratto dalle distrazioni e mi assumo, come sempre, le mie responsabilità… Non ha senso chiedere scusa…Sarebbe una giustificazione e né tu né io abbiamo amato le giustificazioni…
Sono andate via prima, d’un colpo, quelle che avevi donato a Paolo e poi quelle che a me avevi affidato. Erano quattro. Poi si è aggiunta quella che custodiva, come vita di un ricordo, mia madre che mi era stata consegnata da lei, da mamma Maria, nei giorni della sua malattia.
Tutte e tre le tartarughine sono state trovate immobili nel loro silenzio da Virgilio e Micol in un mattino di agosto. Morte, rigide e ferme tutte e tre nella stessa posizione. Ed è come se fossero morte insieme perché insieme sono vissute e insieme sono morte e non so se per solitudine o per il troppo caldo, anche se la sera prima, tornando dalla Calabria, giocavano a nascondersi sotto la terra e poi ricomparire… Nel mistero non si cercano spiegazioni…
Erano tre. Aggiungi, tu che sai cosa sono i simboli e i numeri che hanno sempre fatto la storia nella tua famiglia Bruni – Gaudinieri, quelle che, nell’estate di qualche mese prima del tuo colloquiare con l’aquila, con il sorriso hai regalato a Paolo e il conto ritorna.
Cinque.
In pochi mesi ti hanno raggiunto.
Prima due tartarughe come i tuoi fratelli maggiori, Adolfo e Mariano, e poi in fila, uno dietro l’altro, tu, Pietro e Gino. Non è strana la vita. La vita è semplicemente un mistero complicato, magico, religiosamente istrionico, perché il mistero è anche intrappolato dal destino.
Qui ci fottiamo, mio caro Capitano.
La nave gigante di Via Carmelitani, e rimane sempre tale, è nelle mie mani, ma io ancora non riesco ad assumere il grado di Capitano, sembro piuttosto il guardiano del faro, o l’Ernest che ha scritto il suo essere vecchio nel mare, e sfogliando pagine e foglie di questa storia dei cinque fratelli ho capito che tanti fatti, negli anni, non mi sono stati raccontati o che mi sono stati raccontati ed io ho rimosso.
Mia madre aspetta, ogni sera, che tu le porti una rosa. Una rosa del nostro giardino, o quella rosa che porta nel becco l’aquila dello stemma di famiglia. Ed è mia madre che mi racconta di nonna Giulia Gaudinieri. Proprio lei che è dei Caracciolo…
Le hai volute con te. Le tartarughe. Ed hai ancora una volta giocato come si gioca una partita a poker perfetta.
Prima due e poi hai rilanciato. Due più tre. Cinque. I tuoi cinque fratelli. Lo hai fatto perché ogni fratello potesse avere la sua tartaruga con le sue tredici lune, anzi con le sue 13 lune. Ovvero 1 + 3. 1 + 3 fa quattro.
Certo, ma zio Mariano ci potrebbe dimostrare, come sai anche tu, che può fare anche 14. Sono morte il giorno in cui sul calendario compare la data del giorno 14. Ovvero 1+4. Ma uno più quattro fa cinque, ovvero 5. I cinque fratelli. Distanziate nel tempo. Le prime due e le ultime tre.
Ritorno spesso alla simbologia dei numeri. Siamo in una terra in cui Pitagora raccoglieva gli amori attraverso la conta di quante onde del mare di Magna Grecia colpivano la Colonna e poi i numeri hanno un vissuto che ci conduce agli archetipi… Il Colonnello Agostino Gaudinieri ne conosceva i segreti…
Penso alla storia della tua e nostra famiglia. E lo so che sei stato sempre il centro dei cinque fratelli che ti hanno amato con il bene dei fratelli e che tu hai amato con la dignità dell’amore e della saggezza. Il vero punto di contatto tra i Bruni e i Gaudinieri. Tra San Lorenzo, Spezzano, Cosenza e la Sardegna e non mancavano i tuoi pellegrinaggi a Bisignano ed Acri.
Sei stato tu a parlarmi per primo delle tue radici albanesi discendenti dai Gaudinieri, diventati Arbereshe, provenienti da Acri e Bisignano.
Ormai sono mesi che dormo di un sonno vagante e cerco i pensieri per fermare le parole, o cerco nelle parole di lasciare un pensiero tra pagine di libri per poi dimenticare il pensiero le parole e il libro stesso tra i tanti che affollano le mie stanze e la mia mente.
Dopo due giorni intensi di lavoro nonostante le vigilie del Ferragosto, rincasando Micol mi è venuta incontro e mi ha semplicemente detto: “Papà, siediti. Ti dobbiamo dire un fatto. Abbiamo trovato morte le tre tartarughe”.
Ed io ho chiesto cosa fosse accaduto. “Stamattina Virgilio le ha trovate quasi imbalsamate…”.
Sono entrato nella stanza di Virgilio e il suo silenzio è stato una pietra scagliata nel vento del tempo.
Erano ancora lì, avvolte in una busta. Le ho riprese. Le ho messe insieme su un tappeto. Stavano con la testa protesa e le zampette in avanti. Ho osservato la loro immobilità. Si è immobili, con la morte.
Ho ripensato alle due tartarughe di Paolo che avevo visto morire qualche mese prima. L’immobilità è un silenzio che si offre in dono alle pietre del deserto.
Cinque tartarughe per cinque fratelli.
Ogni tartaruga tredici lune. Ogni luna per tredici tartarughe che hanno abitato il mio giardino. Tredici lune per cinque tartarughe sono 65 lune. Ma 6 + 5 non fa solo sessantacinque. Fa anche 11.
Dalla mia casa della Calabria io sono ritornato, appunto, il giorno in cui sul calendario è segnata la data dell’11. Il giorno in cui mi sono fermato davanti al portone dei Gaudinieri di Spezzano per contare le decorazioni che fanno da cornice al portone.
I rosoni che pongono al centro, nella cornice alta, uno stemma e scendono per tutta l’incorniciato sono 12, ovvero 1 + 3. Le tre tartarughe. Con lo stemma sono 14 i simboli raffigurati, ma 14 equivale anche a 1+4. I cinque fratelli.
Il caso non esiste. Sembra che stia dando i numeri o è la fantasia che mi proietta nella cabala e nel viaggio dei miei simboli sciamanici…
Anzi sono diventato un venditore di numeri, ma no, sono soltanto un cercatore di simboli e vivo di immagini riflesse in un immaginario che non è solo immaginario, ma i cinque fratelli raccontano destini e storie, mistero e bellezza.
La bellezza di dare un senso ai simboli…
Ma tutta la vita è fatta di morte perché è tappezzata di memorie e le memorie non sono altro che le macerie che la nostra esistenza ha depositato lungo i fiumi del vivere.
Ascolto spesso la voce dei cinque fratelli.
E quell’aquila con la corona sul capo e nel becco una rosa rossa porta nel volo il canto del mare e di terre che conoscono le dune. Ora le cinque tartarughe hanno smesso di incontrarsi nell’alba di ogni giornata nuova.
Mio padre ha fatto in modo di regalare una tartaruga ad ogni fratello e forse la più piccola l’ha riservata per sé. Come guida. Con il coraggio della sfida. Con quel coraggio, con quella sfida che non hai mai perso, anche quando il timore della nave è passato tra le mie mani in un mattino di dicembre, che racconta la storia dei numeri dispari pur nel calendario del conformismo.
È vero, il cancello, una volta, si apriva al giallo, viola, rosso verde… dei peperoncini che giocavano alle luci di un artificio di colori…
Poi il tempo è passato… E ora siamo rimasti noi a raccontare e a decifrare la vita che non smette la sua vera sfida…
Ma la Platea dei Gaudinieri porta la data del 1851 nella quale si racconta una storia che viene dal tempo del Barocco…
1851. Uno più otto fa nove. Cinque più uno fa sei. Uno più otto più cinque più sei equivale a 15. Il 15 si ha moltiplicando i cinque fratelli per le tre tartarughe, ma il resto delle altre due?
Ci sarà un’altra storia e forse altri destini si racconteranno mente osservo il volo dell’aquila con la rosa rossa nel becco…
I cinque fratelli disegnano sulle lune delle tartarughe i colori del sole e delle terre, ed io riempio di ricordi le mie parole..
So bene che pur riavvolgendo i giorni e le memorie di secoli, che fanno ormai storia, le tartarughe sono silenzio tra le solitudine dei cammini nella Calabria dei giorni mai dimenticati…
Alla fine non si fa altro che assomigliare ai propri padri… Anzi più si invecchia e più si somiglia al proprio padre… Capitano, O mio Capitano...
Il giardino era un teatro. Si saliva e si scendeva da una scala inizio Novecento e si arrivava nella piazza del teatro e in dono si ricevevano le rose come pegno per una partenza che era sempre segnata dal ritorno.
È da mesi che ascolto e osservo quel giardino quando nei miei ritorni attraverso il vento che ha lo spazio di anni custoditi e persi. I peperoncini non ci sono più e i colori degli alberi non hanno il colore dell’impatto. Non hanno sfumature le pagine degli alberi.
Riavvolgo i giorni e ci sono memorie di secoli che fanno ormai storia.
Mio Capitano, mi avevi lasciato in dono delle tartarughe e mi avevi offerto una preghiera che era quella di custodirle, non solo lasciandole nel loro trascorrere le ore nei passaggi delle stagioni.
Mi rendo conto subito che scrivendo è come se ti scrivessi una nuova lettera, padre mio, mio Capitano…
Custodire. Dunque.
Già, come tu hai custodito per me il nostro giardino e ogni qual volta ritornavo dalle mie fughe – partenze – ritorni per te era sempre un orgoglio portarmi tra gli scoppi dei colori. Soprattutto d’estate. E in primavera i gigli alti e in inverno mi dicevi che bisognava tutti i giorni spazzare le foglie dalle aiole.
Mi avevi dato in dono delle tartarughe, proprio in quelle sere mentre facevi la conta dei gradini per raggiungere il settimo piano e ritrovare allora i due tuoi fratelli e gli zii, come ritornava spesso, in quelle ore, lo zio Giovannino d’America e dicevi di aver ritrovato il numero telefonico e con lui ti dovevi mettere in contatto, con zio Adolfo e il Mariano che era stato una guida, zio Mariano, e sempre impeccabile ironico me lo hai raccontato.
Ma voi siete stati cinque fratelli che avete anteposto alla leggerezza l’ironia e la leggerezza, invece, è stata contrapposta alla fatica di vivere, di esistere, di essere.
Tu, Adolfo, Mariano, Gino e Pietro.
Cinque fratelli che hanno solcato il cammino della dignità della lealtà della coerenza e della nobiltà come è nelle vostri origini.
Ad una mia domanda sulla leggerezza, tu mio Capitano, mi hai risposto:
“La leggerezza appartiene al vento e ne fa ciò che ritiene opportuno. Mentre noi dobbiamo avere tra le mani il vento. Come possiamo fare? Un tempo mi hai chiesto, e lo facevi spesso quando si andava a Cosenza, di trovarti, in una libreria di Cosenza, un libro dal titolo ‘Cent’anni di solitudine’. Mi sono domandato subito: ‘Come fa questo ragazzo a immergersi in un librone in cui si parla soltanto di solitudine… E poi di una solitudine che ha cento anni…’. Ti ho anche chiesto ciò. Ricordo. Dopo qualche anno mi lasciasti su uno dei miei tavoli di lavoro, lo hai fatto appositamente come sempre hai fatto quando volevi lasciarmi un messaggio senza parlarne, dello stesso autore, un libro in cui si parlava di un Patriarca. L’ho letto. In un tuo ritorno ti ho anche detto che se avessi voluto ti saresti potuto riprendere il libro che, involontariamente, ti eri scordato sul tavolo dove c’è la morsa, nei magazzini… Non hai replicato, mi hai detto semplicemente: Capitano guidami tra i peperoncini e raccontami come fare a distinguere l’uno dall’altro a parte i colori…!”.
Ricordo perfettamente questo nostro discorrere. Io e te parlavamo. Anche quando le nostre parole erano impregnate di silenzio. E poi andandotene via hai cercato di regale alcune cose alle quali tenevi molto. Due tartarughe piccole piccole a Paolo, qualcuna a Peppino di Terranova e le altre le avevi affidate a me, quelle piccole, ancora raccomandandomi come non farle morire…
Ebbene, non sono riuscito a tenere fede ai tuoi propositi. Non ti chiedo scusa, Capitano mio, ti dico soltanto che sono stato distratto dalle distrazioni e mi assumo, come sempre, le mie responsabilità… Non ha senso chiedere scusa…Sarebbe una giustificazione e né tu né io abbiamo amato le giustificazioni…
Sono andate via prima, d’un colpo, quelle che avevi donato a Paolo e poi quelle che a me avevi affidato. Erano quattro. Poi si è aggiunta quella che custodiva, come vita di un ricordo, mia madre che mi era stata consegnata da lei, da mamma Maria, nei giorni della sua malattia.
Tutte e tre le tartarughine sono state trovate immobili nel loro silenzio da Virgilio e Micol in un mattino di agosto. Morte, rigide e ferme tutte e tre nella stessa posizione. Ed è come se fossero morte insieme perché insieme sono vissute e insieme sono morte e non so se per solitudine o per il troppo caldo, anche se la sera prima, tornando dalla Calabria, giocavano a nascondersi sotto la terra e poi ricomparire… Nel mistero non si cercano spiegazioni…
Erano tre. Aggiungi, tu che sai cosa sono i simboli e i numeri che hanno sempre fatto la storia nella tua famiglia Bruni – Gaudinieri, quelle che, nell’estate di qualche mese prima del tuo colloquiare con l’aquila, con il sorriso hai regalato a Paolo e il conto ritorna.
Cinque.
In pochi mesi ti hanno raggiunto.
Prima due tartarughe come i tuoi fratelli maggiori, Adolfo e Mariano, e poi in fila, uno dietro l’altro, tu, Pietro e Gino. Non è strana la vita. La vita è semplicemente un mistero complicato, magico, religiosamente istrionico, perché il mistero è anche intrappolato dal destino.
Qui ci fottiamo, mio caro Capitano.
La nave gigante di Via Carmelitani, e rimane sempre tale, è nelle mie mani, ma io ancora non riesco ad assumere il grado di Capitano, sembro piuttosto il guardiano del faro, o l’Ernest che ha scritto il suo essere vecchio nel mare, e sfogliando pagine e foglie di questa storia dei cinque fratelli ho capito che tanti fatti, negli anni, non mi sono stati raccontati o che mi sono stati raccontati ed io ho rimosso.
Mia madre aspetta, ogni sera, che tu le porti una rosa. Una rosa del nostro giardino, o quella rosa che porta nel becco l’aquila dello stemma di famiglia. Ed è mia madre che mi racconta di nonna Giulia Gaudinieri. Proprio lei che è dei Caracciolo…
Le hai volute con te. Le tartarughe. Ed hai ancora una volta giocato come si gioca una partita a poker perfetta.
Prima due e poi hai rilanciato. Due più tre. Cinque. I tuoi cinque fratelli. Lo hai fatto perché ogni fratello potesse avere la sua tartaruga con le sue tredici lune, anzi con le sue 13 lune. Ovvero 1 + 3. 1 + 3 fa quattro.
Certo, ma zio Mariano ci potrebbe dimostrare, come sai anche tu, che può fare anche 14. Sono morte il giorno in cui sul calendario compare la data del giorno 14. Ovvero 1+4. Ma uno più quattro fa cinque, ovvero 5. I cinque fratelli. Distanziate nel tempo. Le prime due e le ultime tre.
Ritorno spesso alla simbologia dei numeri. Siamo in una terra in cui Pitagora raccoglieva gli amori attraverso la conta di quante onde del mare di Magna Grecia colpivano la Colonna e poi i numeri hanno un vissuto che ci conduce agli archetipi… Il Colonnello Agostino Gaudinieri ne conosceva i segreti…
Penso alla storia della tua e nostra famiglia. E lo so che sei stato sempre il centro dei cinque fratelli che ti hanno amato con il bene dei fratelli e che tu hai amato con la dignità dell’amore e della saggezza. Il vero punto di contatto tra i Bruni e i Gaudinieri. Tra San Lorenzo, Spezzano, Cosenza e la Sardegna e non mancavano i tuoi pellegrinaggi a Bisignano ed Acri.
Sei stato tu a parlarmi per primo delle tue radici albanesi discendenti dai Gaudinieri, diventati Arbereshe, provenienti da Acri e Bisignano.
Ormai sono mesi che dormo di un sonno vagante e cerco i pensieri per fermare le parole, o cerco nelle parole di lasciare un pensiero tra pagine di libri per poi dimenticare il pensiero le parole e il libro stesso tra i tanti che affollano le mie stanze e la mia mente.
Dopo due giorni intensi di lavoro nonostante le vigilie del Ferragosto, rincasando Micol mi è venuta incontro e mi ha semplicemente detto: “Papà, siediti. Ti dobbiamo dire un fatto. Abbiamo trovato morte le tre tartarughe”.
Ed io ho chiesto cosa fosse accaduto. “Stamattina Virgilio le ha trovate quasi imbalsamate…”.
Sono entrato nella stanza di Virgilio e il suo silenzio è stato una pietra scagliata nel vento del tempo.
Erano ancora lì, avvolte in una busta. Le ho riprese. Le ho messe insieme su un tappeto. Stavano con la testa protesa e le zampette in avanti. Ho osservato la loro immobilità. Si è immobili, con la morte.
Ho ripensato alle due tartarughe di Paolo che avevo visto morire qualche mese prima. L’immobilità è un silenzio che si offre in dono alle pietre del deserto.
Cinque tartarughe per cinque fratelli.
Ogni tartaruga tredici lune. Ogni luna per tredici tartarughe che hanno abitato il mio giardino. Tredici lune per cinque tartarughe sono 65 lune. Ma 6 + 5 non fa solo sessantacinque. Fa anche 11.
Dalla mia casa della Calabria io sono ritornato, appunto, il giorno in cui sul calendario è segnata la data dell’11. Il giorno in cui mi sono fermato davanti al portone dei Gaudinieri di Spezzano per contare le decorazioni che fanno da cornice al portone.
I rosoni che pongono al centro, nella cornice alta, uno stemma e scendono per tutta l’incorniciato sono 12, ovvero 1 + 3. Le tre tartarughe. Con lo stemma sono 14 i simboli raffigurati, ma 14 equivale anche a 1+4. I cinque fratelli.
Il caso non esiste. Sembra che stia dando i numeri o è la fantasia che mi proietta nella cabala e nel viaggio dei miei simboli sciamanici…
Anzi sono diventato un venditore di numeri, ma no, sono soltanto un cercatore di simboli e vivo di immagini riflesse in un immaginario che non è solo immaginario, ma i cinque fratelli raccontano destini e storie, mistero e bellezza.
La bellezza di dare un senso ai simboli…
Ma tutta la vita è fatta di morte perché è tappezzata di memorie e le memorie non sono altro che le macerie che la nostra esistenza ha depositato lungo i fiumi del vivere.
Ascolto spesso la voce dei cinque fratelli.
E quell’aquila con la corona sul capo e nel becco una rosa rossa porta nel volo il canto del mare e di terre che conoscono le dune. Ora le cinque tartarughe hanno smesso di incontrarsi nell’alba di ogni giornata nuova.
Mio padre ha fatto in modo di regalare una tartaruga ad ogni fratello e forse la più piccola l’ha riservata per sé. Come guida. Con il coraggio della sfida. Con quel coraggio, con quella sfida che non hai mai perso, anche quando il timore della nave è passato tra le mie mani in un mattino di dicembre, che racconta la storia dei numeri dispari pur nel calendario del conformismo.
È vero, il cancello, una volta, si apriva al giallo, viola, rosso verde… dei peperoncini che giocavano alle luci di un artificio di colori…
Poi il tempo è passato… E ora siamo rimasti noi a raccontare e a decifrare la vita che non smette la sua vera sfida…
Ma la Platea dei Gaudinieri porta la data del 1851 nella quale si racconta una storia che viene dal tempo del Barocco…
1851. Uno più otto fa nove. Cinque più uno fa sei. Uno più otto più cinque più sei equivale a 15. Il 15 si ha moltiplicando i cinque fratelli per le tre tartarughe, ma il resto delle altre due?
Ci sarà un’altra storia e forse altri destini si racconteranno mente osservo il volo dell’aquila con la rosa rossa nel becco…
I cinque fratelli disegnano sulle lune delle tartarughe i colori del sole e delle terre, ed io riempio di ricordi le mie parole..
So bene che pur riavvolgendo i giorni e le memorie di secoli, che fanno ormai storia, le tartarughe sono silenzio tra le solitudine dei cammini nella Calabria dei giorni mai dimenticati…
Alla fine non si fa altro che assomigliare ai propri padri… Anzi più si invecchia e più si somiglia al proprio padre… Capitano, O mio Capitano...