Pierfranco Bruni
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Immagine
La vita vissuta ogni tanto si riposa e cerca di assopirsi, poi ritorna con violenza e dolcezza. Come le crostate che faceva mia madre


ROMA - Porta la data del 1929, stampigliata su un medaglione, scavato per terra, a forma di cuore all’ingresso del cancello, attraverso il quale si accede al giardino e alla scalinata, della mia casa abitata un tempo e che cercherò di ritornare ad abitare nel tempo che sarà. 1929. Una casa nata con i Patti Lateranensi. I paesi sanno dormire nelle loro pazienze, ma sanno anche svegliarsi e ricominciare a solcare la storia o le storie. Mio padre coltiva le rose e la pianta di limoni.
Zio Pietro arriverà tra qualche giorno dalla Sardegna. Non so se ha ancora la sua Maggiolino, ma un tempo era bello restare ad aspettarlo. Soprattutto nelle estati che avevano il sole negli occhi e la brezza del mare nella voce.
I miei prendevano la casa della villeggiatura per due mesi e anche fino a settembre.
Al mare di Trebisacce le pietre avevano il fuoco dei falò. E c’era sempre la passeggiata serale in quel Lungomare ricco di voci e di passi e avevamo di fronte sempre il Miramare.
Veniva a trovarci anche zio Peppino, il fratello di mamma, e qualche volta zietta, ovvero zia Elvira.
Era sempre festa, ma io ho sempre custodito malinconie. Soprattutto quando mio padre il lunedì doveva partire per ritornare al suo lavoro e noi restavamo per sei giorni in quel mare e su quella spiaggia…
Ed era bello…
Già in quel tempo mi mancava il paese…
Erano i mesi in cui non vedevo zio Gino, zio Dolfino, zio Mariano… Avevano un altro mare e un’altra spiaggia…
Da Cosenza raggiungere Trebisacce era distante…
Zia Teresa ritornava alla sua spiaggia, quella di Schiavonea…
Zio Mariano aveva poi comprato casa a Fuscaldo, sul Tirreno.
Zio Gino e zia Adalgisa si fermavano sulla Litoranea di Sibari…
Sono quelle estati che mi riportano a un vissuto che diventa, però, un mosaico con i tasselli sempre mancanti…
Il mio paese è lì ed è quello di mio padre, di mio nonno e dei cinque fratelli…
 
Tutto ha un senso. Soprattutto quando riavvolgi il nastro e ricompaiono sensazioni che si credevano smarrite o rannicchiate nel dimenticato. Ma nulla si dimentica.
La vita vissuta ogni tanto si riposa e cerca di assopirsi un po’, ma poi ritorna con la sua violenza e la sua dolcezza come le crostate che faceva mia madre o il caffé della mattina che mio padre mi portava all’alba perché conosceva i miei gusti…
Ritorno con immagini riflesse in uno specchio ad alcuni dettagli del mio paese.
Un barlume del popolare che continua dentro di me:
"Vulimi pani,/Vulimu terra,/Vulimu 'a paci/e mai cchiù guerra".
Un detto popolare che mi ripetevano i vecchi seduti al fresco sulle panchine di pietra del paese.
Quel mondo contadino nelle radici della storia di una comunità. Ma la mia famiglia ascoltava i contadini…
Avevamo terre, uliveti, vigneti e tanti alberi di fichi…
Anche nel giardino della mia casa c’è un albero di fichi che butta sul terrazzo… Una volta c’era uno straordinario albero che portava, in abbondanza, nespoli.
È meraviglia nello scenario…
Non sono stati mai stanchi i contadini di San Lorenzo.
Erano solo consapevoli. Si portavano dietro vissuti ancestrali, ma hanno sempre saputo ricominciare.
Bisogna ripensarlo ripensando a ciò che è stato un paese.
La cultura popolare può essere il tutto perché ci permette di leggere quello che non riusciremmo a leggere diversamente.
Non so se potrò mai dire:
…tre volte mi voltai  da Canalicchio…
San Lorenzo dove ti ho lasciato…
Una testimonianza è sempre un destino che ha coriandoli anche quando non è più carnevale.
Canalicchio era il limite attraverso il quale si segnava un confine. Oltre Canalicchio si andava oltre e gli orizzonti diventavano sterminati.
Ma faccio fatica ora a camminare sui cocci e sulle pietre del mare di Trebisacce. Eppure ho trascorso anni della mia infanzia e parte della giovinezza…
Si diventa sempre più esigenti. Ma tutta la vita è una esigenza che trova angoli di tempo lungo le maree e i ricordi. Si invecchia senza più illusioni, ma con la bellezza che la vita resta la più incompiuta impresa tra l’infinito e l’infinito.
Penso spesso a ciò che è stato mio padre nella mia vita. Penso spesso alla solitudine di mia madre.
Sono vissuto in una famiglia grandiosa la cui nobiltà era l’affetto.
I cinque fratelli ora fanno girotondo.
Mio padre continua ad andare a caccia con il suo cappotto spigato.
Zio Adolfo sfoglia i quotidiani nella sera.
Zio Mariano non smette di dare lezioni alte di matematica e osserva.
Zio Gino è alle prese con le nuove normative sugli appalti.
Zio Pietro non si stanca di fotografare i paesaggi e i volti di una Sardegna antica.
Ed io conto quante volte ancora potrei voltarmi da Canalicchio…


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