Custodiamo ricordi che non sono più soltanto ricordi
ma destino, magia e storia
Ci sono generazioni che si incontrano. Ci sono generazioni che si intrecciano. Ci sono generazioni che creano continuità. Le generazioni danno un senso alla storia. Si fanno storia. Sono storia. Bisogna viverle camminandole tra i dettagli che regalano, che segnano, che aprono vie. Le generazioni sono vie. E così bisogna camminarle con le eredità di sangue che sono esistenza che tracciano tempo. Tracciano il tempo.
ma destino, magia e storia
Ci sono generazioni che si incontrano. Ci sono generazioni che si intrecciano. Ci sono generazioni che creano continuità. Le generazioni danno un senso alla storia. Si fanno storia. Sono storia. Bisogna viverle camminandole tra i dettagli che regalano, che segnano, che aprono vie. Le generazioni sono vie. E così bisogna camminarle con le eredità di sangue che sono esistenza che tracciano tempo. Tracciano il tempo.
Il mio tempo è stato tracciato dalle vie che i cammini dei cinque fratelli hanno attraversato e hanno depositato nella memoria.
Ogni loro gesto, ogni loro partenza, ogni loro sosta ha siglato la conchiglia della vita, nel sacro del viaggio, che allontana le indifferenze e avvicina il coraggio di vivere la nobiltà dell’appartenenza con la pazienza, con lo sguardo delle attrazioni, con i silenzi che hanno voci.
Voci antiche. Antiche voci. Bisogna ascoltare gli echi per rintracciare il vento che giunge dagli Orienti e dagli Occidenti. E nella Calabria che ho viaggiato onda dopo onda, zolla dopo zolla, lingua dopo lingua, etnia tra etnie e dentro le etnie, avverto le voci che le foglie ingiallite mi riportano.
La famiglia è una religiosità.
Quando non la si avverte nella sua sacralità si è toccati dalla menzogna, dal falso, dalla non riconoscenza, dalla bugia.
Io sempre trovo nei cinque fratelli il suono e il canto che Ulisse avvertiva lambendo la sua Itaca.
Bisogna avere una Itaca nel cuore.
Bisogna avere una Terra Promessa nell’anima.
Bisogna saper ascoltare ogni nota di quel “Notturno” o di quei “Notturni” che Chopin ha recuperato nella notte della sua anima e vi ha dato luce.
Il nonno sapeva ascoltare Chopin. E lo ascoltava, nella sua stanza. Chiuso nella sua stanza e con gli occhi sognanti navigava paesi e popoli, civiltà e storie.
Lo ricordo.
Ogni notte un tocco di magia.
Zio Gino ascoltava e commentava la cronaca politica perché ragionava di politica e di amministrazione.
Zio Pietro osservava senza alcun distacco le notizie dei Governi e restava nella sua tradizione.
Zio Adolfo leggeva i suoi quotidiani e non commentava.
Zio Mariano, con attenzione, non si lasciava sfuggire alcun passaggio della storia.
Mio padre custodiva i fogli dei giornali che parlavano della caduta del Fascismo e conosceva ad uno ad uno chi ha vissuto l’ultima notte tra gli ulivi di Getsemani.
Certo, la famiglia è sempre religiosità. E tutto ciò che accade è già accaduto. Tutto ciò che è accaduto non si dimentica.
Non bisogna mai dimenticare. Chi dimentica perde.
Ho immagini che camminano nel mio vagare di sguardi e racconti che restano come precisi dettagli che mio padre mi ha inciso nel cuore.
I padri non si dimenticano e si amano.
Le madri si amano e non si dimenticano.
Siamo tutti lungo la Via della Conchiglia.
San Giacomo ci porta a raccogliere il tempo che vive dentro di noi e anche al di fuori di noi.
Siamo un vissuto. Ma non siamo stati, siamo un vissuto. Siamo una continuità.
Ci sono legami di sangue nei destini e nelle generazioni che vivono la continuità.
Ho spesso negli occhi l’ordine, e uso una metafora che diventa immagine e visione in una geografia dell’anima, della sapienza e il rigore cesellato nelle parole di zio Mariano.
Parlare con lui era sempre ascoltarlo. Non solo sentirlo. Ascoltarlo era avvertire la singolare lezione di vita.
A spasso con il tempo si intaglia una ragnatela di memorie.
Tra gli amici cari a zio Mariano c’erano Giovanni Laviola, classe 1915, di Spezzano Albanese e Alessandro Serra, classe 1914, di Spezzano Albanese.
Sono stati loro, sia Laviola che Serra, a raccontarmi lo stretto legame con zio Mariano. E come?
La vita è sempre un mistero.
Laviola, studioso di questione Arbereshe, ma anche uno scrittore che ha tracciato passi tra i suoi paesi.
Serra, storico che ha scritto un libro importante su Spezzano Albanese e dei racconti di ricordi di guerra.
Li conoscevo e stimavo per ciò che hanno rappresentato nelle ricerche tra comunità e linguaggi letterari.
Ho dialogato per tanti anni con loro perché sono stati anche compagni di ricerche, nel mio campo di lavoro, con i quali ho intrecciato alcuni miei approfondimenti sulle questioni etniche. Li ho persino recensiti e sono presenti in alcuni miei libri e pubblicazioni.
Generazioni distanti dalle mie, ma si sono presentati sul mio cammino con una umiltà e una gioiosa presenza che hanno inciso pensieri.
Laviola, addirittura mi ha sempre chiamato, Pierfrancesco Mariano. Fino agli ultimi nostri incontri non faceva che chiedermi di Mariano. L’ho incontrato più volte non solo a Spezzano, ma anche a Trebisacce e a Roseto.
Serra è stato, tra l’altro, in una breve stagione, anche preside, quando nei miei anni frequentavo le Medie. Ci siamo incontrati a Spezzano, ma anche a Roma dove si era poi trasferito.
Hanno raccontato la storia non di un paese soltanto, ma di comunità.
Di quelle comunità che si leggono nella vita di zio Mariano. Il rispetto era il gradino più nobile dei nostri incontri.
Mi sono trovato amico e compagno di studi con Giovanni e Alessandro. Giovanni chiamava Mariano il Bruni – Gaudinieri.
Con Alessandro è storica una passeggiata a Roma mentre si mangiava lupini e le bucce finivano sul campo delle persone che camminavano a due passi dietro…
Una storia divertente che mi ha sempre raccontato mio padre e confermata dal sorriso ironico dio zio Mariano… Si erano dimenticati di camminare su Via del Corso e pensavano di essere sulla Nazionale di Spezzano…
Ricordandola ad Alessandro Serra, in un pomeriggio nel suo villino di Spezzano, si è fatto una bella risata e mi ha detto soltanto:
“Se ti capita scrivila pure… Erano anni di giovinezza…”.
Laviola e Serra. Gli amici, tra i più cari, della giovinezza di zio Mariano.
Siamo antichi. Non siamo stati antichi.
Siamo e resteremo antichi nel volo dell’aquila che cerca di posare tra i capelli di una donna misteriosa la sua rosa rossa che custodisce nel becco…
Già, restiamo antichi nel raccontare frammenti di esistenza e di viaggi.
Siamo antichi e raccogliamo l’antico che non smette di vivere lungo il nostro cammino. Ma la vita resta un lungo esercizio di sguardi.
Tutti noi, noi, io in particolare, noi figli dei cinque fratelli dobbiamo “qualcosa” a zio Mariano. E parlo a nome dei Bruni e Gaudinieri con i quali sto condividendo, ed ho condiviso, questo percorso.
Vivo e viviamo pagine che si sfogliano con il vento di tramontana e pagine che si impaginano e si spaginano e si reimpaginano con un legame di sangue, che ha la profondità dei porti che non sono mai sepolti e ai quali le nostre barche si sono ancorate.
Bisogna sempre riconoscere il bene ricevuto e mai dimenticare.
Chi si dimentica si perde.
Molti di noi devono “qualcosa” a zio Mariano e a zia Maria di Cosenza.
Proprio in un pomeriggio di qualche settimana fa ne parlavo con Antonella. Ci siamo detti che quando i legami di sangue intrecciano vite quel legame non è soltanto una metafora o un dire soltanto.
Resta un vero legame di sangue come mi ha insegnato il mio amico scrittore al quale ho tanto voluto bene e che tanto mi ha voluto bene: Alberto Bevilacqua.
Ci sono generazioni che si incontrano.
Ci sono generazioni che tracciato vita.
Ci sono generazioni che dettano continuità.
Io molti di noi viviamo in questa continuità che ha la nobiltà nel destino e il destino come viaggio.
Ognuno di noi ha ricordi che non sono più soltanto ricordi. Non restano soltanto ricordi. Sono vita in una ragnatela tra destino, magia e storia.
Ognuno di noi porta negli occhi il padre e la madre.
I cinque fratelli sono la nobiltà di un legame di sangue. Chi non sente questo legame è uno smarrito nell’orto dei rovi.
Ogni loro gesto, ogni loro partenza, ogni loro sosta ha siglato la conchiglia della vita, nel sacro del viaggio, che allontana le indifferenze e avvicina il coraggio di vivere la nobiltà dell’appartenenza con la pazienza, con lo sguardo delle attrazioni, con i silenzi che hanno voci.
Voci antiche. Antiche voci. Bisogna ascoltare gli echi per rintracciare il vento che giunge dagli Orienti e dagli Occidenti. E nella Calabria che ho viaggiato onda dopo onda, zolla dopo zolla, lingua dopo lingua, etnia tra etnie e dentro le etnie, avverto le voci che le foglie ingiallite mi riportano.
La famiglia è una religiosità.
Quando non la si avverte nella sua sacralità si è toccati dalla menzogna, dal falso, dalla non riconoscenza, dalla bugia.
Io sempre trovo nei cinque fratelli il suono e il canto che Ulisse avvertiva lambendo la sua Itaca.
Bisogna avere una Itaca nel cuore.
Bisogna avere una Terra Promessa nell’anima.
Bisogna saper ascoltare ogni nota di quel “Notturno” o di quei “Notturni” che Chopin ha recuperato nella notte della sua anima e vi ha dato luce.
Il nonno sapeva ascoltare Chopin. E lo ascoltava, nella sua stanza. Chiuso nella sua stanza e con gli occhi sognanti navigava paesi e popoli, civiltà e storie.
Lo ricordo.
Ogni notte un tocco di magia.
Zio Gino ascoltava e commentava la cronaca politica perché ragionava di politica e di amministrazione.
Zio Pietro osservava senza alcun distacco le notizie dei Governi e restava nella sua tradizione.
Zio Adolfo leggeva i suoi quotidiani e non commentava.
Zio Mariano, con attenzione, non si lasciava sfuggire alcun passaggio della storia.
Mio padre custodiva i fogli dei giornali che parlavano della caduta del Fascismo e conosceva ad uno ad uno chi ha vissuto l’ultima notte tra gli ulivi di Getsemani.
Certo, la famiglia è sempre religiosità. E tutto ciò che accade è già accaduto. Tutto ciò che è accaduto non si dimentica.
Non bisogna mai dimenticare. Chi dimentica perde.
Ho immagini che camminano nel mio vagare di sguardi e racconti che restano come precisi dettagli che mio padre mi ha inciso nel cuore.
I padri non si dimenticano e si amano.
Le madri si amano e non si dimenticano.
Siamo tutti lungo la Via della Conchiglia.
San Giacomo ci porta a raccogliere il tempo che vive dentro di noi e anche al di fuori di noi.
Siamo un vissuto. Ma non siamo stati, siamo un vissuto. Siamo una continuità.
Ci sono legami di sangue nei destini e nelle generazioni che vivono la continuità.
Ho spesso negli occhi l’ordine, e uso una metafora che diventa immagine e visione in una geografia dell’anima, della sapienza e il rigore cesellato nelle parole di zio Mariano.
Parlare con lui era sempre ascoltarlo. Non solo sentirlo. Ascoltarlo era avvertire la singolare lezione di vita.
A spasso con il tempo si intaglia una ragnatela di memorie.
Tra gli amici cari a zio Mariano c’erano Giovanni Laviola, classe 1915, di Spezzano Albanese e Alessandro Serra, classe 1914, di Spezzano Albanese.
Sono stati loro, sia Laviola che Serra, a raccontarmi lo stretto legame con zio Mariano. E come?
La vita è sempre un mistero.
Laviola, studioso di questione Arbereshe, ma anche uno scrittore che ha tracciato passi tra i suoi paesi.
Serra, storico che ha scritto un libro importante su Spezzano Albanese e dei racconti di ricordi di guerra.
Li conoscevo e stimavo per ciò che hanno rappresentato nelle ricerche tra comunità e linguaggi letterari.
Ho dialogato per tanti anni con loro perché sono stati anche compagni di ricerche, nel mio campo di lavoro, con i quali ho intrecciato alcuni miei approfondimenti sulle questioni etniche. Li ho persino recensiti e sono presenti in alcuni miei libri e pubblicazioni.
Generazioni distanti dalle mie, ma si sono presentati sul mio cammino con una umiltà e una gioiosa presenza che hanno inciso pensieri.
Laviola, addirittura mi ha sempre chiamato, Pierfrancesco Mariano. Fino agli ultimi nostri incontri non faceva che chiedermi di Mariano. L’ho incontrato più volte non solo a Spezzano, ma anche a Trebisacce e a Roseto.
Serra è stato, tra l’altro, in una breve stagione, anche preside, quando nei miei anni frequentavo le Medie. Ci siamo incontrati a Spezzano, ma anche a Roma dove si era poi trasferito.
Hanno raccontato la storia non di un paese soltanto, ma di comunità.
Di quelle comunità che si leggono nella vita di zio Mariano. Il rispetto era il gradino più nobile dei nostri incontri.
Mi sono trovato amico e compagno di studi con Giovanni e Alessandro. Giovanni chiamava Mariano il Bruni – Gaudinieri.
Con Alessandro è storica una passeggiata a Roma mentre si mangiava lupini e le bucce finivano sul campo delle persone che camminavano a due passi dietro…
Una storia divertente che mi ha sempre raccontato mio padre e confermata dal sorriso ironico dio zio Mariano… Si erano dimenticati di camminare su Via del Corso e pensavano di essere sulla Nazionale di Spezzano…
Ricordandola ad Alessandro Serra, in un pomeriggio nel suo villino di Spezzano, si è fatto una bella risata e mi ha detto soltanto:
“Se ti capita scrivila pure… Erano anni di giovinezza…”.
Laviola e Serra. Gli amici, tra i più cari, della giovinezza di zio Mariano.
Siamo antichi. Non siamo stati antichi.
Siamo e resteremo antichi nel volo dell’aquila che cerca di posare tra i capelli di una donna misteriosa la sua rosa rossa che custodisce nel becco…
Già, restiamo antichi nel raccontare frammenti di esistenza e di viaggi.
Siamo antichi e raccogliamo l’antico che non smette di vivere lungo il nostro cammino. Ma la vita resta un lungo esercizio di sguardi.
Tutti noi, noi, io in particolare, noi figli dei cinque fratelli dobbiamo “qualcosa” a zio Mariano. E parlo a nome dei Bruni e Gaudinieri con i quali sto condividendo, ed ho condiviso, questo percorso.
Vivo e viviamo pagine che si sfogliano con il vento di tramontana e pagine che si impaginano e si spaginano e si reimpaginano con un legame di sangue, che ha la profondità dei porti che non sono mai sepolti e ai quali le nostre barche si sono ancorate.
Bisogna sempre riconoscere il bene ricevuto e mai dimenticare.
Chi si dimentica si perde.
Molti di noi devono “qualcosa” a zio Mariano e a zia Maria di Cosenza.
Proprio in un pomeriggio di qualche settimana fa ne parlavo con Antonella. Ci siamo detti che quando i legami di sangue intrecciano vite quel legame non è soltanto una metafora o un dire soltanto.
Resta un vero legame di sangue come mi ha insegnato il mio amico scrittore al quale ho tanto voluto bene e che tanto mi ha voluto bene: Alberto Bevilacqua.
Ci sono generazioni che si incontrano.
Ci sono generazioni che tracciato vita.
Ci sono generazioni che dettano continuità.
Io molti di noi viviamo in questa continuità che ha la nobiltà nel destino e il destino come viaggio.
Ognuno di noi ha ricordi che non sono più soltanto ricordi. Non restano soltanto ricordi. Sono vita in una ragnatela tra destino, magia e storia.
Ognuno di noi porta negli occhi il padre e la madre.
I cinque fratelli sono la nobiltà di un legame di sangue. Chi non sente questo legame è uno smarrito nell’orto dei rovi.