Da Pavese a De André e tra i versi di Riccardo Cocciante e Roberto Vecchioni nei riferimenti della tradizione in un verso giocondo e stilnovista
di Pierfranco Bruni
di Pierfranco Bruni
C’è una bella canzone di Riccardo Cocciante in cui si fa riferimento ad una lei che legge un libro di Pavese: “… e tu che leggevi un libro di Pavese…”. C’è anche un’altra canzone di Roberto Vecchioni che ha per titolo: “Verrà la notte e avrà i tuoi occhi”. Le metafore scorrono e si rincorrono nei segni del tempo e tra coloro che sanno che la letteratura è più forte di ogni ideologia o forse è più viva e vera di ogni appartenenza politica.
Pavese ne era convinto. Per essere poeti si deve essere eretici o anarchici. Come affermava De André. O forse bisogna possedere quel pizzico di utopia che ci allontana dalla presunzione della politica e ci rende la vita e la morte con quell’essere e con quella consapevolezza che fanno parte del mistero della creatività.
De André e Pavese hanno in comune Lee Masters. Un viaggio alla ricerca dell'esistente sulla collina dei morti. Metafore o una articolazione poetico - esistenziale? Ma la letteratura, la poesia, è sempre più esistenza.
Un viaggio nel cuore della memoria: O meglio delle memorie indelebili che solcano una esistenza. La sua vita, ma anche la sua morte, è tutta scritta nei suoi libri: dalle poesie ai racconti, dai saggi ai romanzi. Un raccordo fondamentale e a volte profetico.
Mnemòsine dirà ad Esiodo in Dialoghi con Leucò: “Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini”. L’incipit di Tra donne sole : “Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone”.
Saltimbanchi e venditori. Due personaggi che raccolgono i sogni di un’infanzia. Quella di Pavese. Quella di un poeta. Quella di un uomo. E in quei personaggi c’è la metafora dell’infanzia di ognuno di noi che si perde nel fiume degli anni e, poi, ritorna come falce di luna a ricordarci un tempo. Nel cantare – recitare di Vecchioni questo tempo è immenso e immensità. Un tempo che, nonostante tutto, continua a vivere e noi siamo dentro questo tempo e ci lasciamo andare in un presente che ritma i passi di ciò che sarà domani.
Chissà se quella ragazza della canzone di Cocciante continuerà a leggere un libro di Pavese? Ma Pavese resta tra i libri vivi nel trapasso di una generazione, che ha ormai smesso di credere nelle illusioni delle ideologie e racconta miti incancellabili tra i segmenti del nostro essere. Pavese è uno scrittore che si è sempre testimoniato. I suoi romanzi, le sue poesie, i suoi saggi letterari sono un lungo diario nel quale l’uomo è un viaggiatore nella memoria e nella storia. In questa storia che non è rappresentazione ma tempo. Si è spesso parlato di un Pavese neorealista. Neanche questo è tutto vero.
Era, tra l’altro, un poeta che “sperimentava” la parola e intorno alla parola creava viaggi. Si pensi a Lavorare stanca. Il “realismo” viene mutuato dal (nel) mito. Il realismo si supera nel momento in cui il mito si fa memoria. E anche nei romanzi qui citati (oltre allo splendido Dialoghi con Leucò) la realtà viene completamente depositata nella storia e questa resiste perché non è rappresentazione ma, appunto, memoria. La luna e i falò è il romanzo del concedo.
Dalla vita ma anche dalla letteratura stessa. Giungerà poi il grappolo delle poesie di Verrà la morte. In La luna e i falò, ha scritto Pautasso, Pavese "non ha bruciato solo se stesso in un falò ideale, ma tutta la sua esperienza di scrittore. Una conclusione, dunque, che non scade sul piano del pettegolezzo: il suicidio reale di Pavese può anche coincidere con il suicidio ideale di uno scrittore che aveva la coscienza di essere giunto al limite estremo, di aver detto tutto quello che aveva da dire".
Un viaggio tra la luna e i falò nella memoria di un tempo che si raccoglie tra i destini e i miti. Pavese fu un vero scrittore. E resta tale pur in un processo dialettico in cui si può discutere di impegno o disimpegno anche se Pavese ha speso la sua vita per la letteratura.
In fondo Pavese resta lo scrittore del destino, del tutto è destino, e del mito che chiede rivelazioni. Non solo un gioco di immagini nel ricordare ma una riappropriazione di un tempo che rimane nella nostalgia. Il senso di questo viaggio giunge da perimetri letterari lontani: Guininzelli, Cavalcanti, Dante Alighieri.
Il dolore resta. Un dolore che è dentro la vita. Ma è dentro anche i linguaggi della vita. È dentro la letteratura che non dimentica, e Pavese lo sapeva bene, la quotidiana tragedia del vivere. Come Cocciante che ha la melodia della malinconia, come Vecchioni che cerca nel tempo di capire il “cielo capovolto, come in De André che viaggia tra le “anime salve”.
Pavese ne era convinto. Per essere poeti si deve essere eretici o anarchici. Come affermava De André. O forse bisogna possedere quel pizzico di utopia che ci allontana dalla presunzione della politica e ci rende la vita e la morte con quell’essere e con quella consapevolezza che fanno parte del mistero della creatività.
De André e Pavese hanno in comune Lee Masters. Un viaggio alla ricerca dell'esistente sulla collina dei morti. Metafore o una articolazione poetico - esistenziale? Ma la letteratura, la poesia, è sempre più esistenza.
Un viaggio nel cuore della memoria: O meglio delle memorie indelebili che solcano una esistenza. La sua vita, ma anche la sua morte, è tutta scritta nei suoi libri: dalle poesie ai racconti, dai saggi ai romanzi. Un raccordo fondamentale e a volte profetico.
Mnemòsine dirà ad Esiodo in Dialoghi con Leucò: “Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini”. L’incipit di Tra donne sole : “Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone”.
Saltimbanchi e venditori. Due personaggi che raccolgono i sogni di un’infanzia. Quella di Pavese. Quella di un poeta. Quella di un uomo. E in quei personaggi c’è la metafora dell’infanzia di ognuno di noi che si perde nel fiume degli anni e, poi, ritorna come falce di luna a ricordarci un tempo. Nel cantare – recitare di Vecchioni questo tempo è immenso e immensità. Un tempo che, nonostante tutto, continua a vivere e noi siamo dentro questo tempo e ci lasciamo andare in un presente che ritma i passi di ciò che sarà domani.
Chissà se quella ragazza della canzone di Cocciante continuerà a leggere un libro di Pavese? Ma Pavese resta tra i libri vivi nel trapasso di una generazione, che ha ormai smesso di credere nelle illusioni delle ideologie e racconta miti incancellabili tra i segmenti del nostro essere. Pavese è uno scrittore che si è sempre testimoniato. I suoi romanzi, le sue poesie, i suoi saggi letterari sono un lungo diario nel quale l’uomo è un viaggiatore nella memoria e nella storia. In questa storia che non è rappresentazione ma tempo. Si è spesso parlato di un Pavese neorealista. Neanche questo è tutto vero.
Era, tra l’altro, un poeta che “sperimentava” la parola e intorno alla parola creava viaggi. Si pensi a Lavorare stanca. Il “realismo” viene mutuato dal (nel) mito. Il realismo si supera nel momento in cui il mito si fa memoria. E anche nei romanzi qui citati (oltre allo splendido Dialoghi con Leucò) la realtà viene completamente depositata nella storia e questa resiste perché non è rappresentazione ma, appunto, memoria. La luna e i falò è il romanzo del concedo.
Dalla vita ma anche dalla letteratura stessa. Giungerà poi il grappolo delle poesie di Verrà la morte. In La luna e i falò, ha scritto Pautasso, Pavese "non ha bruciato solo se stesso in un falò ideale, ma tutta la sua esperienza di scrittore. Una conclusione, dunque, che non scade sul piano del pettegolezzo: il suicidio reale di Pavese può anche coincidere con il suicidio ideale di uno scrittore che aveva la coscienza di essere giunto al limite estremo, di aver detto tutto quello che aveva da dire".
Un viaggio tra la luna e i falò nella memoria di un tempo che si raccoglie tra i destini e i miti. Pavese fu un vero scrittore. E resta tale pur in un processo dialettico in cui si può discutere di impegno o disimpegno anche se Pavese ha speso la sua vita per la letteratura.
In fondo Pavese resta lo scrittore del destino, del tutto è destino, e del mito che chiede rivelazioni. Non solo un gioco di immagini nel ricordare ma una riappropriazione di un tempo che rimane nella nostalgia. Il senso di questo viaggio giunge da perimetri letterari lontani: Guininzelli, Cavalcanti, Dante Alighieri.
Il dolore resta. Un dolore che è dentro la vita. Ma è dentro anche i linguaggi della vita. È dentro la letteratura che non dimentica, e Pavese lo sapeva bene, la quotidiana tragedia del vivere. Come Cocciante che ha la melodia della malinconia, come Vecchioni che cerca nel tempo di capire il “cielo capovolto, come in De André che viaggia tra le “anime salve”.