Dal suonatore di duduk al danzatore di qifteli
Quando nel Mediterraneo le parole diventano voci ed echi e destino
di Pierfranco Bruni
Le “voci” del Mediterraneo sono un intreccio tra popoli e civiltà, tra lingue e linguaggi in un viaggio i cui echi hanno il vento che giunge dal mare e dalle terre. I popoli sono sempre un incontro tra le eredità elle culture e le identità che si misurano attraverso le appartenenze.
Occorre costruire il Mediterraneo e non soltanto recuperando le tradizioni, ma scoprendo tutto ciò che pensavamo di conoscere e che, invece, vive di distanze, di mistero, di nascosto.
Costruire il Mediterraneo è anche ascoltare e sentire, è anche vedere e guardare, è anche immaginare e sognare.
In un tempo di naviganti che cercano il vento d’altura o una sponda le civiltà le civiltà diventano popoli e i popoli sono l’alba e il tramonto di coscienze.
Forse anche per questo trovare in una leggenda o in una fiaba o in un racconto, che ha radici e matrici etniche, il suono della parola significa dare un senso ad un orizzonte.
Gli Albanesi e gli Armeni sono storia e pensiero, nostalgia e diaspore, fughe e ritorni in un Mediterraneo che diventa sempre più inclusivo non solo in termini geografici, ma profondamente esistenziali.
Ci sono sempre esistenze nelle culture degli uomini e sono gli uomini che camminano e navigano nonostante il vento, il deserto, le maree.
Nella letteratura Albanese e in quella Armena ci sono incontri e rotture.
Ci sono i segni di un c’era una volta o di un forse c’era una volta, ma quel mondo Adriatico, asiatico, balcanico non è il limite o una frontiera. Diventa sempre più una strada. Un camminamento che si legge tra le onde e le dune dei Mediterranei.
La favola o la leggenda, la fiaba e il racconto, pur nelle loro diversità strutturali, diventano sempre un narrare. Un narrare che passa inevitabilmente attraverso la voce per diventare scrittura.
L’oralità si traduce in scrittura e gli Orienti, con i suoi – loro colori, i sogni di una notte che diventa mille notti e le aquile, i cavalli, le rondini, la luna, il sole del sogno, urtano i tramonti e i crepuscoli, le notti e le albe degli Occidenti.
Il sogno, nella leggende e nella favola degli Albanesi e degli Armeni, non è soltanto il recuperare un immaginario. Diventa soprattutto un segno creatore che vive consapevolmente nei labirinti per farsi mito e diventare simbolo.
Le metafore sono, sostanzialmente, dei criteri poetici. Il campo delle metafore si serve delle immagini, ma è il tono, la ritmicità, il suono della “fabula” che offre l’opportunità di comprendere quei mezzi linguistici che passano, inevitabilmente, dalla preistoria del racconto, che è l’oralità, alla nuova archeologia del sapere linguistico che è diventata la scrittura.
Proprio qui si avverte, in una raccordare la storia alla realtà, la trasformazione delle metafore, le quali restano, appunto, immagini. Anzi sono le parole che creano immagini, perché, in fondo, ad essere mascheramento, nascondimento e mistero sono le metafore.
È come se si creasse un mosaico tra la leggenda e la favola, nella recita o nella lettura della cultura Albanese ed Armena, per definirsi in un incastro di voci che danno vita ai personaggi, ai luoghi, al viaggiare.
Una geografia, dunque, in cui gli Orienti (Turco e Musulmano) si definiscono negli Occidenti (Mercanti e Cristiani), e viceversa. Nella fabula, usando impropriamente questo concetto per legare leggenda e favola stessa, la metafora occupa, chiaramente, il campo delle parole. Non quello dei linguaggi. La parola avverte, subisce e offre delle metamorfosi.
Sia in Albania che in Armenia l’Oriente è nella visione Islamico – Ottomana. La storia ha il sopravvento, ma soltanto nell’orizzonte delle metamorfosi del linguaggio, si riesce a comprendere il passaggio tra una dimensione individuale e una dimensione in cui i popoli straziano l’anima ad una civiltà.
Così è accaduto in Armenia. Così in Albania.
Popoli e civiltà che hanno convissuto con il senso della bellezza e con l’orizzonte di morte.
Nel raccontare le leggende e le favole il filo della malinconia ha il suono del duduk, in Armenia, e del çiftelia in Albania.
La musica, nei popoli, è il linguaggio di epoche.
Come i diamanti per i mercanti che si portano dentro la pioggia d’Oriente.
Come il lauro che racconta l’immortalità e incorona gli eroi per gli Occidenti.
Più che storie comuni, tra le due civiltà e i due popoli, ci sono storie di mezzo.
Per gli Armeni il monte Ararat ha il valore della “creazione di Dio”, ovvero è la metafore del luogo creato da Dio, dove, secondo una leggenda, è approdato Noè e qui si è ancorata la sua Arca.
Mentre per il Turco è la montagna del dolore. Gli Armeni hanno difeso profondamente la loro fede nella cristianità. Come gli Albanesi che hanno affidato il loro messaggio cristiano ed occidentale a Giorgio Castriota Scanderbeg.
Quella terra di Armenia delle “pietre urlanti”, come ebbe a dire Mandelstam, trova il confronto con la terra delle Montagne che ha la durezza del Kanun in Albania.
La favola, la leggenda, dunque il raccontare, respirano questi scenari e queste atmosfere e “Il suonatore di duduk” armeno diventa “Il danzatore con la qifteli”.
Così.
Il suonatore di duduk
“Forse, nel castello dove l’albero di melograno aveva scenari di rosso, c’era una volta il gallo del Re. Al primo annuncio della notte svanita, nel cominciar del giorno, cantava.
Un bel giorno, che diremmo mesto, non si udì il canto. Il Re non si svegliò e non diede gli ordini. Soltanto all’imbrunire il Re si accorse che il suo castello era stato occupato dai musulmani. Fece in tempo a chiamare il suonatore di duduk che intonò la pazienza della nostalgia.
I musulmani, impauriti da questo suono, restarono smarriti. Cercarono da dove potesse giungere quel suono. Ma nulla trovarono. Il suonatore continuava a suonare senza smettere per alcuna pausa.
Quel suono richiamava la tradizione del popolo e la nostalgia del suonatore, presto, si trasformò in una preghiera.
Sempre smarriti, i musulmani corsero fuori dalle mura del castello. Il suonatore di duduk, ancora oggi, non ha smesso di suonare.
Nonostante tutto. Forse c’era una volta il suonatore di duduk”.
Così si racconta in terra d’Armenia e quel “nonostante tutto” sta proprio incastrato nella tragica storia del popolo armeno e nel genocidio che subirono.
Il duduk è uno strumento musicale, chiamato anche flauto albicocca o flauto a pipa, che vive nella tradizione dell’Armenia e si suona come se ogni suono pronunciasse una parola.
Lo si nota anche nel film “The Passion”, 2004, ed è suonato dall’attore venezuelano Pedro Eustache.
Il danzatore con la qifteli
“C’era una volta un danzatore di qifteli che in una piazza d’Albania, dell’Albania rocciosa, danzava e le sue dita sembravano volteggiare sulle due corde, allineate in posizione parallela, che emettevano echi che si sentivano anche oltre il vento spinto tra gli spacchi dei monti.
Suonava e danzava per la sua Fazile, che si era offerta a Maometto. Il danzatore non trovava riposo.
Nell’alba di un giorno che era destinato ad una pioggia notturna arrivarono i soldati di Maometto. Ridussero a mille frammenti il qifteli e bastonarono il danzatore.
Per giorni e notti soltanto il silenzio occupava la piazza e il vento non portava oltre i monti l’eco.
Nel pieno buio di una notte, che non era destinata alla pioggia, si udì nuovamente il suono e il danzatore ricominciò a suonare. Intanto Fazile era fuggita dalle braccia di Maometto.
Al suono del danzatore si presentò in piazza. Si avvicinò. Si presero per mano e nulla si è potuto aggiungere a questa storia. Soltanto che il suonatore si faceva chiamare Gyon”.
Tipica la figura del danzatore che suona il qifteli, chiamato anche çiftelia, nella cultura albanese.
C’è da sottolineare, comunque, un particolare.
Fazile (Fazilet) è un nome di donna maomettana, quindi di tradizione orientale ed islamica, mentre Gyon, che vuol dire Giovanni, è nome tipicamente occidentale e cristiano.
La leggenda Armena e quella Albanese, così come la favola, vive (vivono) la consistenza di un intreccio che è quello tra storia e letteratura. Un intreccio che la tradizione trasporta all’interno di una interpretazione antropologica, il cui risvolto trova delle assonanze etniche ben definite.
L’anima dei popoli si incontrano, appunto, in una metafisica che è quella del raccontare per metafore, i cui segni sia linguistici che metaforici stessi si richiamano in una metamorfosi della parola.
Tutto per essere tramandato, ovvero la tradizione che diventa una costante verità tra il presente, ciò che diremo e la memoria che si arricchisce sia di nostalgia sia di malinconia sia di un tempo che non può essere eterno, ma infinito.
In fondo, sia la leggenda che la favola che il raccontare, in Armenia e in Albania, ma sostanzialmente nella coscienza dei popoli e delle civiltà, sono un infinito che resiste all’urto della storia sino a quando la verità della tradizione continuerà ad esistere nell’anima delle culture, che hanno parola, voce, lingua e linguaggi. Tutto ciò perché nel Mediterraneo tutti i suoni dell’indefinibile sono incontro di terre e mari, di mistero e destino,di acque e di deserti nello sguardo tra un Oriente che è fatto di Orienti e di un Occidente fatto di Occidenti.
Quando nel Mediterraneo le parole diventano voci ed echi e destino
di Pierfranco Bruni
Le “voci” del Mediterraneo sono un intreccio tra popoli e civiltà, tra lingue e linguaggi in un viaggio i cui echi hanno il vento che giunge dal mare e dalle terre. I popoli sono sempre un incontro tra le eredità elle culture e le identità che si misurano attraverso le appartenenze.
Occorre costruire il Mediterraneo e non soltanto recuperando le tradizioni, ma scoprendo tutto ciò che pensavamo di conoscere e che, invece, vive di distanze, di mistero, di nascosto.
Costruire il Mediterraneo è anche ascoltare e sentire, è anche vedere e guardare, è anche immaginare e sognare.
In un tempo di naviganti che cercano il vento d’altura o una sponda le civiltà le civiltà diventano popoli e i popoli sono l’alba e il tramonto di coscienze.
Forse anche per questo trovare in una leggenda o in una fiaba o in un racconto, che ha radici e matrici etniche, il suono della parola significa dare un senso ad un orizzonte.
Gli Albanesi e gli Armeni sono storia e pensiero, nostalgia e diaspore, fughe e ritorni in un Mediterraneo che diventa sempre più inclusivo non solo in termini geografici, ma profondamente esistenziali.
Ci sono sempre esistenze nelle culture degli uomini e sono gli uomini che camminano e navigano nonostante il vento, il deserto, le maree.
Nella letteratura Albanese e in quella Armena ci sono incontri e rotture.
Ci sono i segni di un c’era una volta o di un forse c’era una volta, ma quel mondo Adriatico, asiatico, balcanico non è il limite o una frontiera. Diventa sempre più una strada. Un camminamento che si legge tra le onde e le dune dei Mediterranei.
La favola o la leggenda, la fiaba e il racconto, pur nelle loro diversità strutturali, diventano sempre un narrare. Un narrare che passa inevitabilmente attraverso la voce per diventare scrittura.
L’oralità si traduce in scrittura e gli Orienti, con i suoi – loro colori, i sogni di una notte che diventa mille notti e le aquile, i cavalli, le rondini, la luna, il sole del sogno, urtano i tramonti e i crepuscoli, le notti e le albe degli Occidenti.
Il sogno, nella leggende e nella favola degli Albanesi e degli Armeni, non è soltanto il recuperare un immaginario. Diventa soprattutto un segno creatore che vive consapevolmente nei labirinti per farsi mito e diventare simbolo.
Le metafore sono, sostanzialmente, dei criteri poetici. Il campo delle metafore si serve delle immagini, ma è il tono, la ritmicità, il suono della “fabula” che offre l’opportunità di comprendere quei mezzi linguistici che passano, inevitabilmente, dalla preistoria del racconto, che è l’oralità, alla nuova archeologia del sapere linguistico che è diventata la scrittura.
Proprio qui si avverte, in una raccordare la storia alla realtà, la trasformazione delle metafore, le quali restano, appunto, immagini. Anzi sono le parole che creano immagini, perché, in fondo, ad essere mascheramento, nascondimento e mistero sono le metafore.
È come se si creasse un mosaico tra la leggenda e la favola, nella recita o nella lettura della cultura Albanese ed Armena, per definirsi in un incastro di voci che danno vita ai personaggi, ai luoghi, al viaggiare.
Una geografia, dunque, in cui gli Orienti (Turco e Musulmano) si definiscono negli Occidenti (Mercanti e Cristiani), e viceversa. Nella fabula, usando impropriamente questo concetto per legare leggenda e favola stessa, la metafora occupa, chiaramente, il campo delle parole. Non quello dei linguaggi. La parola avverte, subisce e offre delle metamorfosi.
Sia in Albania che in Armenia l’Oriente è nella visione Islamico – Ottomana. La storia ha il sopravvento, ma soltanto nell’orizzonte delle metamorfosi del linguaggio, si riesce a comprendere il passaggio tra una dimensione individuale e una dimensione in cui i popoli straziano l’anima ad una civiltà.
Così è accaduto in Armenia. Così in Albania.
Popoli e civiltà che hanno convissuto con il senso della bellezza e con l’orizzonte di morte.
Nel raccontare le leggende e le favole il filo della malinconia ha il suono del duduk, in Armenia, e del çiftelia in Albania.
La musica, nei popoli, è il linguaggio di epoche.
Come i diamanti per i mercanti che si portano dentro la pioggia d’Oriente.
Come il lauro che racconta l’immortalità e incorona gli eroi per gli Occidenti.
Più che storie comuni, tra le due civiltà e i due popoli, ci sono storie di mezzo.
Per gli Armeni il monte Ararat ha il valore della “creazione di Dio”, ovvero è la metafore del luogo creato da Dio, dove, secondo una leggenda, è approdato Noè e qui si è ancorata la sua Arca.
Mentre per il Turco è la montagna del dolore. Gli Armeni hanno difeso profondamente la loro fede nella cristianità. Come gli Albanesi che hanno affidato il loro messaggio cristiano ed occidentale a Giorgio Castriota Scanderbeg.
Quella terra di Armenia delle “pietre urlanti”, come ebbe a dire Mandelstam, trova il confronto con la terra delle Montagne che ha la durezza del Kanun in Albania.
La favola, la leggenda, dunque il raccontare, respirano questi scenari e queste atmosfere e “Il suonatore di duduk” armeno diventa “Il danzatore con la qifteli”.
Così.
Il suonatore di duduk
“Forse, nel castello dove l’albero di melograno aveva scenari di rosso, c’era una volta il gallo del Re. Al primo annuncio della notte svanita, nel cominciar del giorno, cantava.
Un bel giorno, che diremmo mesto, non si udì il canto. Il Re non si svegliò e non diede gli ordini. Soltanto all’imbrunire il Re si accorse che il suo castello era stato occupato dai musulmani. Fece in tempo a chiamare il suonatore di duduk che intonò la pazienza della nostalgia.
I musulmani, impauriti da questo suono, restarono smarriti. Cercarono da dove potesse giungere quel suono. Ma nulla trovarono. Il suonatore continuava a suonare senza smettere per alcuna pausa.
Quel suono richiamava la tradizione del popolo e la nostalgia del suonatore, presto, si trasformò in una preghiera.
Sempre smarriti, i musulmani corsero fuori dalle mura del castello. Il suonatore di duduk, ancora oggi, non ha smesso di suonare.
Nonostante tutto. Forse c’era una volta il suonatore di duduk”.
Così si racconta in terra d’Armenia e quel “nonostante tutto” sta proprio incastrato nella tragica storia del popolo armeno e nel genocidio che subirono.
Il duduk è uno strumento musicale, chiamato anche flauto albicocca o flauto a pipa, che vive nella tradizione dell’Armenia e si suona come se ogni suono pronunciasse una parola.
Lo si nota anche nel film “The Passion”, 2004, ed è suonato dall’attore venezuelano Pedro Eustache.
Il danzatore con la qifteli
“C’era una volta un danzatore di qifteli che in una piazza d’Albania, dell’Albania rocciosa, danzava e le sue dita sembravano volteggiare sulle due corde, allineate in posizione parallela, che emettevano echi che si sentivano anche oltre il vento spinto tra gli spacchi dei monti.
Suonava e danzava per la sua Fazile, che si era offerta a Maometto. Il danzatore non trovava riposo.
Nell’alba di un giorno che era destinato ad una pioggia notturna arrivarono i soldati di Maometto. Ridussero a mille frammenti il qifteli e bastonarono il danzatore.
Per giorni e notti soltanto il silenzio occupava la piazza e il vento non portava oltre i monti l’eco.
Nel pieno buio di una notte, che non era destinata alla pioggia, si udì nuovamente il suono e il danzatore ricominciò a suonare. Intanto Fazile era fuggita dalle braccia di Maometto.
Al suono del danzatore si presentò in piazza. Si avvicinò. Si presero per mano e nulla si è potuto aggiungere a questa storia. Soltanto che il suonatore si faceva chiamare Gyon”.
Tipica la figura del danzatore che suona il qifteli, chiamato anche çiftelia, nella cultura albanese.
C’è da sottolineare, comunque, un particolare.
Fazile (Fazilet) è un nome di donna maomettana, quindi di tradizione orientale ed islamica, mentre Gyon, che vuol dire Giovanni, è nome tipicamente occidentale e cristiano.
La leggenda Armena e quella Albanese, così come la favola, vive (vivono) la consistenza di un intreccio che è quello tra storia e letteratura. Un intreccio che la tradizione trasporta all’interno di una interpretazione antropologica, il cui risvolto trova delle assonanze etniche ben definite.
L’anima dei popoli si incontrano, appunto, in una metafisica che è quella del raccontare per metafore, i cui segni sia linguistici che metaforici stessi si richiamano in una metamorfosi della parola.
Tutto per essere tramandato, ovvero la tradizione che diventa una costante verità tra il presente, ciò che diremo e la memoria che si arricchisce sia di nostalgia sia di malinconia sia di un tempo che non può essere eterno, ma infinito.
In fondo, sia la leggenda che la favola che il raccontare, in Armenia e in Albania, ma sostanzialmente nella coscienza dei popoli e delle civiltà, sono un infinito che resiste all’urto della storia sino a quando la verità della tradizione continuerà ad esistere nell’anima delle culture, che hanno parola, voce, lingua e linguaggi. Tutto ciò perché nel Mediterraneo tutti i suoni dell’indefinibile sono incontro di terre e mari, di mistero e destino,di acque e di deserti nello sguardo tra un Oriente che è fatto di Orienti e di un Occidente fatto di Occidenti.