Il problema è come offrire occupazione nei beni culturali a Taranto e non è difendere il passato come sistema
di Pierfranco Bruni
22.02.2016
Credo che il pensiero giusto per poter riflettere con serenità sulla Riforma dei Beni culturali Franceschini (autonomia dei musei e questioni soprintendenze) sia quello di valutare i costi e i benefici in rapporto tra presente e futuro, ovvero tra realtà e potenzialità di investire sulle risorse senza perdere identità.
A Taranto c’è stato, negli ultimi anni, e c’è un vittimismo latente che non smette di indossare abiti diversi e, a volte, inaspettati, però un progetto culturale concreto non è stato mai espresso tranne tra il 1995 e 1999. Un progetto che abbia una sua originalità e una caratteristica di collegamenti tra la città e gli eventi internazionali.
Si insiste sul fatto dello “scippo” della soprintendenza, ma non è così sia sul piano culturale che giuridico. C’è una logica della rappresentatività nelle geografie delle aree che fanno cultura e producono cultura sul piano dei beni culturali e tale rappresentatività è un dato congeniale ad una città che soffre di assenza di turismo e di programmazione culturale ragionata pur avendo le dovute potenzialità.
Bisognava far fronte ad una apertura delle realtà che possono avere un senso nel legame tra turismo, accoglienza e cultura. Ecco la necessità dell’autonomia del Museo. La riscoperta di Taranto e del suo patrimonio storico, la lettura del territorio e l’invito a conoscere di più la città non passano attraverso la contestazione ad una Riforma che non va a mutare il presupposto né della tutela e tanto meno della conoscenza se questa conoscenza va legata alla valorizzazione e alla fruizione delle culture.
Le contestazioni servono a dire: ecco ci siamo. I soliti manifesti firmati, qui e altrove, da addetti ai lavori sembrano l’accerchiamento di una casta, (ormai anni fine Settanta: quando c’è una questione si parte con il via alle firme per difendere cosa? Una appartenenza? Il Sessantotto è finito, il 78 pure e persino sono finite le macerie eppure è rimasto altro…), ma che poi, in realtà, non producono gli effetti utili e importanti quali quelli della cultura come elemento valorizzante per una città in caduta libera, o la cultura come sistema di una economia avanzata che possa permettere di scommettere sulla “provvidenza” dei “nuovi” giovani da occupare.
Ma qui non si è capito che la cultura deve anche servire ad offrire spazi di ricerca, occupazionale, lavorativa alle generazioni che vengono da studi sui beni culturali. Non si è ancora compreso che rivendicare un passato di nostalgie non crea le possibilità inventive per costruire la “fantasia” per nuove occupazioni. Insomma si protesta per un passato che nessuno lacera, ma non per un vuoto nel quale si trovano a vivere le generazioni culturalizzati nel campo del patrimonio dei beni culturali.
Io avrei visto in positivo una protesta per aprire varchi per far entrare nuove forme di lavoro (e ve ne sono tantissime da inserire nei beni culturali di profili professionali attinenti proprio gli studi sulla Magna Grecia) nel campo della cultura e non una battaglia per un passato che sia la Memoria o una Istituzione, come garanzia di una Identità dei saperi custoditi.
Se avessimo letto con attenzione alcune parole di Papa Francesco ci saremmo resi conto come la cultura “umida” o con la “polvere” non crea attraversamenti innovanti.
Scrive il Santo Padre, in un libro sull’arte, che presenteremo nei prossimi giorni a Roma, che occorrerebbe leggere con attenzione: “I musei devono accogliere le nuove forme d’arte. Devono spalancare le porte alle persone di tutto il mondo. Essere uno strumento di dialogo tra le culture e le religioni, uno strumento di pace. Essere vivi! Non polverose raccolte del passato solo per gli ‘eletti’ e i ‘sapienti’, ma una realtà vitale che sappia custodire quel passato per raccontarlo agli uomini di oggi, a cominciare dai più umili, e disporsi così, tutti insieme, con fiducia al presente e anche al futuro”.
A disporsi al presente e al futuro. Io non credo al vittimismo. Credo alla progettualità come sistema integrale e interattivo tra la cultura e gli effetti valorizzanti. Questo è il vero problema di una questione da argomentare completamente.
di Pierfranco Bruni
22.02.2016
Credo che il pensiero giusto per poter riflettere con serenità sulla Riforma dei Beni culturali Franceschini (autonomia dei musei e questioni soprintendenze) sia quello di valutare i costi e i benefici in rapporto tra presente e futuro, ovvero tra realtà e potenzialità di investire sulle risorse senza perdere identità.
A Taranto c’è stato, negli ultimi anni, e c’è un vittimismo latente che non smette di indossare abiti diversi e, a volte, inaspettati, però un progetto culturale concreto non è stato mai espresso tranne tra il 1995 e 1999. Un progetto che abbia una sua originalità e una caratteristica di collegamenti tra la città e gli eventi internazionali.
Si insiste sul fatto dello “scippo” della soprintendenza, ma non è così sia sul piano culturale che giuridico. C’è una logica della rappresentatività nelle geografie delle aree che fanno cultura e producono cultura sul piano dei beni culturali e tale rappresentatività è un dato congeniale ad una città che soffre di assenza di turismo e di programmazione culturale ragionata pur avendo le dovute potenzialità.
Bisognava far fronte ad una apertura delle realtà che possono avere un senso nel legame tra turismo, accoglienza e cultura. Ecco la necessità dell’autonomia del Museo. La riscoperta di Taranto e del suo patrimonio storico, la lettura del territorio e l’invito a conoscere di più la città non passano attraverso la contestazione ad una Riforma che non va a mutare il presupposto né della tutela e tanto meno della conoscenza se questa conoscenza va legata alla valorizzazione e alla fruizione delle culture.
Le contestazioni servono a dire: ecco ci siamo. I soliti manifesti firmati, qui e altrove, da addetti ai lavori sembrano l’accerchiamento di una casta, (ormai anni fine Settanta: quando c’è una questione si parte con il via alle firme per difendere cosa? Una appartenenza? Il Sessantotto è finito, il 78 pure e persino sono finite le macerie eppure è rimasto altro…), ma che poi, in realtà, non producono gli effetti utili e importanti quali quelli della cultura come elemento valorizzante per una città in caduta libera, o la cultura come sistema di una economia avanzata che possa permettere di scommettere sulla “provvidenza” dei “nuovi” giovani da occupare.
Ma qui non si è capito che la cultura deve anche servire ad offrire spazi di ricerca, occupazionale, lavorativa alle generazioni che vengono da studi sui beni culturali. Non si è ancora compreso che rivendicare un passato di nostalgie non crea le possibilità inventive per costruire la “fantasia” per nuove occupazioni. Insomma si protesta per un passato che nessuno lacera, ma non per un vuoto nel quale si trovano a vivere le generazioni culturalizzati nel campo del patrimonio dei beni culturali.
Io avrei visto in positivo una protesta per aprire varchi per far entrare nuove forme di lavoro (e ve ne sono tantissime da inserire nei beni culturali di profili professionali attinenti proprio gli studi sulla Magna Grecia) nel campo della cultura e non una battaglia per un passato che sia la Memoria o una Istituzione, come garanzia di una Identità dei saperi custoditi.
Se avessimo letto con attenzione alcune parole di Papa Francesco ci saremmo resi conto come la cultura “umida” o con la “polvere” non crea attraversamenti innovanti.
Scrive il Santo Padre, in un libro sull’arte, che presenteremo nei prossimi giorni a Roma, che occorrerebbe leggere con attenzione: “I musei devono accogliere le nuove forme d’arte. Devono spalancare le porte alle persone di tutto il mondo. Essere uno strumento di dialogo tra le culture e le religioni, uno strumento di pace. Essere vivi! Non polverose raccolte del passato solo per gli ‘eletti’ e i ‘sapienti’, ma una realtà vitale che sappia custodire quel passato per raccontarlo agli uomini di oggi, a cominciare dai più umili, e disporsi così, tutti insieme, con fiducia al presente e anche al futuro”.
A disporsi al presente e al futuro. Io non credo al vittimismo. Credo alla progettualità come sistema integrale e interattivo tra la cultura e gli effetti valorizzanti. Questo è il vero problema di una questione da argomentare completamente.