Il Mediterraneo, il mare nostro su cui sbocciano, come dei fiori, le città e le isole del mondo antico e di sempre. Quelle acque e quelle terre toccate dall’apostolo Paolo, a volte a seguito di naufragi, nel corso dei suoi viaggi missionari. Fino all’ultimo viaggio, quello che lo porterà alla fine dei giorni.
Ecco la realtà (ma anche la metafora) peculiare, prescelta da Pierfranco Bruni in queste pagine. Se, oltre a una lettura esegetica e teologica, si dà un’altra possibile chiave di accostamento alla storia sacra, ecco che si apre per ogni lettore una diversa e piacevole rotta antropologica, la quale mira a leggere tra le pieghe dell’epistolario paolino e degli altri testi sacri che parlano di lui come uomo che va. Si tratta di pieghe esistenziali e culturali, di strategie di parola e di comunicazione, ma anche di mistero e di rischio.
Bruni non scrive per compiere un’operazione da esegeta o da storico, ma da poeta e da scrittore. Egli è uno che si sa accostare da altri lati e prospettive a quel medesimo mare in mezzo alle terre (o anche terre intorno al mare), lungo il quale si mosse più volte l’Apostolo, guidato da quella sua coscienza martire e apostolica, che lo conduceva tra i popoli abitanti sulle sponde di quel grande specchio d’acqua. Non soltanto alla ricerca di confronti e dialoghi con intellettuali (come gli Epicurei e gli Stoici nell’Areòpago, ad Atene), ma in mezzo alla piazze, in cerca di confronti con la gente, con gli eventi, volendo trovare l’anima antropologica dei popoli e delle loro storie.
In quella che egli stesso denomina “letteratura descrizione”, svolta sulle orme mediterranee del tredicesimo Apostolo, ci viene proposta, ad ogni rigo, una rotta di speranza: le civiltà possono ancora parlarsi, le generazioni dialogare: nel labirinto del tempo e dell’esistere si dà un filo d’Arianna.
Si può, malgrado le migrazioni attuali di popoli dall’Africa e dal vicino Oriente colorino drammaticamente di rosso di sangue quelle acque mediterranee e ne facciano quasi un lago-cimitero di esistenze umane, tragicamente annegate mentre erano alla ricerca di approdi mancati per difetto d’amore. Si può, benché il buio esistenziale sembri prevalere talvolta sul lumen fidei.
Davvero leggere la letteratura e la filosofia di ieri e di oggi oltre gli schemi critici può farci fissare l’attenzione non alla morale o alla questione etica, ma all’estetica del vissuto che c’è dentro ogni linguaggio. Anche dentro il linguaggio e la parola di Paolo, il personaggio a cui sono dedicati ben 15 su 28 capitoli del libro canonico degli Atti degli Apostoli, e di cui ci rimane un ricco epistolario, per la gran parte uscito o direttamente dalla sua penna (prima della redazione dei Vangeli), ovvero da lui ispirato ai suoi fidati collaboratori.
Paolo interpreta, appunto, il suo testimoniare come un andare e un viaggiare. Giudeo della cosiddetta diàspora (perché nato nell’attuale Turchia), ma profondamente radicato nelle tradizioni dei padri (fu allievo del rabbino Gamaliele), contemporaneo di Gesù (che però non ha avuto la possibilità di conoscere de visu, ma di cui ha sentito in visione la voce e le indicazioni), l’ex Saulo di Tarso (in Oriente, come la Sebaste di Biagio, ricordato emblematicamente da Pierfranco) ècivis romanus per parte di padre, un ebreo della Cilicia.
È Paolo che, una volta portata a maturazione la propria conversione cristiana ad Antiochia – la città in cui per la prima volta, (come riferiscono Atti 11,26), si parla dei seguaci di Gesù di Nazaret come dei “cristiani” - riuscirà ad imprimere al mondo dei seguaci di Gesù, gli adelphói, la cosiddetta “svolta missionaria”. Essere apostolo significa essere “inviato”, cioè testimone. Questo comporta strutturalmente l’andare, il viaggiare per terra e per mare, lungo le rotte commerciali usate dalla supremazia romana. Così ce lo ricorda il racconto, alquanto trionfalistico, di Eusebio di Cesarea, che mostra in azione questo viaggiare vigoroso della Parola, attraverso i testimoni, come Paolo, l’apostolo delle genti; Tommaso, l’apostolo dei Parti; Andrea, l’apostolo degli Sciti; Giovanni in missione verso l’Asia (sull’isola di Patmos dove avrebbe avuto, all’inizio degli anni Novanta, secondo Girolamo, la visione consegnata all’Apocalisse).
Bruni si dice convinto che Paolo stesso sia il “viaggio”, ora inteso come ricerca di un centro, di un linguaggio che accomuni e attivi reti universalistiche mettendo “in piazza”, non contentandosi di andare in alto sull’Areópago; ora, invece, come metafisicità, ovvero ontologia, del pellegrinaggio, che incrocia culture e prospettive, anche teoretiche (i Seneca, i Kierkegaard, gli Heidegger, i Prini…); ora visto come naufragio in grado di svelare il segreto di un’esistenza, come ebbe a scrivere Pietro Prini (1915-2008), il filosofo a cui viene dedicata discreta attenzione; ora come mistero che si collega alla grazia e alla carità, in quelle “confessiones” agostinianeante litteram che sono le lettere di Paolo, ma anche i personaggi di Dostoevskij, che toccano l’anima e il cuore, lasciando segni attraverso la parola (che si fa linguaggio onirico); ora mettendosi sui sentieri dell’Oriente e dell’Occidente in un viaggio geograficamente noto, ma ancora da esplorare “anche” sul piano esistenziale; ora, infine, tessendo reti e preparando nuovi incroci tra mondo orientale e mondo occidentale come san Biagio, capace di far dialogare le culture bizantina e ortodossa con quella romana.
Le ultime immagini del saggio sono Damasco e Malta, emblemi di conversione e naufragio. Se la “lingua della poesia… è soprattutto un paradosso”, come scrive Bruni, attraverso queste sue pagine si può effettivamente provare a fare in proprio, su altre rotte, un piacevole e intenso viaggio spirituale.
Si tratta di vivere Paolo non al di fuori di noi, ma dentro le nostre incertezze, che cercano di diventare o magari trasformarsi in verità. Ritrovando, chissà, il senso genuino della fede, che tra l’altro è un pellegrinare dentro di noi e nelle attese che ci navigano nel mistero, scommettendo sul tempo come vettore verso di noi, l’altro e l’Altro.
+ Vincenzo Bertolone
(Arcivescovo di Catanzaro-Squillace)
Ecco la realtà (ma anche la metafora) peculiare, prescelta da Pierfranco Bruni in queste pagine. Se, oltre a una lettura esegetica e teologica, si dà un’altra possibile chiave di accostamento alla storia sacra, ecco che si apre per ogni lettore una diversa e piacevole rotta antropologica, la quale mira a leggere tra le pieghe dell’epistolario paolino e degli altri testi sacri che parlano di lui come uomo che va. Si tratta di pieghe esistenziali e culturali, di strategie di parola e di comunicazione, ma anche di mistero e di rischio.
Bruni non scrive per compiere un’operazione da esegeta o da storico, ma da poeta e da scrittore. Egli è uno che si sa accostare da altri lati e prospettive a quel medesimo mare in mezzo alle terre (o anche terre intorno al mare), lungo il quale si mosse più volte l’Apostolo, guidato da quella sua coscienza martire e apostolica, che lo conduceva tra i popoli abitanti sulle sponde di quel grande specchio d’acqua. Non soltanto alla ricerca di confronti e dialoghi con intellettuali (come gli Epicurei e gli Stoici nell’Areòpago, ad Atene), ma in mezzo alla piazze, in cerca di confronti con la gente, con gli eventi, volendo trovare l’anima antropologica dei popoli e delle loro storie.
In quella che egli stesso denomina “letteratura descrizione”, svolta sulle orme mediterranee del tredicesimo Apostolo, ci viene proposta, ad ogni rigo, una rotta di speranza: le civiltà possono ancora parlarsi, le generazioni dialogare: nel labirinto del tempo e dell’esistere si dà un filo d’Arianna.
Si può, malgrado le migrazioni attuali di popoli dall’Africa e dal vicino Oriente colorino drammaticamente di rosso di sangue quelle acque mediterranee e ne facciano quasi un lago-cimitero di esistenze umane, tragicamente annegate mentre erano alla ricerca di approdi mancati per difetto d’amore. Si può, benché il buio esistenziale sembri prevalere talvolta sul lumen fidei.
Davvero leggere la letteratura e la filosofia di ieri e di oggi oltre gli schemi critici può farci fissare l’attenzione non alla morale o alla questione etica, ma all’estetica del vissuto che c’è dentro ogni linguaggio. Anche dentro il linguaggio e la parola di Paolo, il personaggio a cui sono dedicati ben 15 su 28 capitoli del libro canonico degli Atti degli Apostoli, e di cui ci rimane un ricco epistolario, per la gran parte uscito o direttamente dalla sua penna (prima della redazione dei Vangeli), ovvero da lui ispirato ai suoi fidati collaboratori.
Paolo interpreta, appunto, il suo testimoniare come un andare e un viaggiare. Giudeo della cosiddetta diàspora (perché nato nell’attuale Turchia), ma profondamente radicato nelle tradizioni dei padri (fu allievo del rabbino Gamaliele), contemporaneo di Gesù (che però non ha avuto la possibilità di conoscere de visu, ma di cui ha sentito in visione la voce e le indicazioni), l’ex Saulo di Tarso (in Oriente, come la Sebaste di Biagio, ricordato emblematicamente da Pierfranco) ècivis romanus per parte di padre, un ebreo della Cilicia.
È Paolo che, una volta portata a maturazione la propria conversione cristiana ad Antiochia – la città in cui per la prima volta, (come riferiscono Atti 11,26), si parla dei seguaci di Gesù di Nazaret come dei “cristiani” - riuscirà ad imprimere al mondo dei seguaci di Gesù, gli adelphói, la cosiddetta “svolta missionaria”. Essere apostolo significa essere “inviato”, cioè testimone. Questo comporta strutturalmente l’andare, il viaggiare per terra e per mare, lungo le rotte commerciali usate dalla supremazia romana. Così ce lo ricorda il racconto, alquanto trionfalistico, di Eusebio di Cesarea, che mostra in azione questo viaggiare vigoroso della Parola, attraverso i testimoni, come Paolo, l’apostolo delle genti; Tommaso, l’apostolo dei Parti; Andrea, l’apostolo degli Sciti; Giovanni in missione verso l’Asia (sull’isola di Patmos dove avrebbe avuto, all’inizio degli anni Novanta, secondo Girolamo, la visione consegnata all’Apocalisse).
Bruni si dice convinto che Paolo stesso sia il “viaggio”, ora inteso come ricerca di un centro, di un linguaggio che accomuni e attivi reti universalistiche mettendo “in piazza”, non contentandosi di andare in alto sull’Areópago; ora, invece, come metafisicità, ovvero ontologia, del pellegrinaggio, che incrocia culture e prospettive, anche teoretiche (i Seneca, i Kierkegaard, gli Heidegger, i Prini…); ora visto come naufragio in grado di svelare il segreto di un’esistenza, come ebbe a scrivere Pietro Prini (1915-2008), il filosofo a cui viene dedicata discreta attenzione; ora come mistero che si collega alla grazia e alla carità, in quelle “confessiones” agostinianeante litteram che sono le lettere di Paolo, ma anche i personaggi di Dostoevskij, che toccano l’anima e il cuore, lasciando segni attraverso la parola (che si fa linguaggio onirico); ora mettendosi sui sentieri dell’Oriente e dell’Occidente in un viaggio geograficamente noto, ma ancora da esplorare “anche” sul piano esistenziale; ora, infine, tessendo reti e preparando nuovi incroci tra mondo orientale e mondo occidentale come san Biagio, capace di far dialogare le culture bizantina e ortodossa con quella romana.
Le ultime immagini del saggio sono Damasco e Malta, emblemi di conversione e naufragio. Se la “lingua della poesia… è soprattutto un paradosso”, come scrive Bruni, attraverso queste sue pagine si può effettivamente provare a fare in proprio, su altre rotte, un piacevole e intenso viaggio spirituale.
Si tratta di vivere Paolo non al di fuori di noi, ma dentro le nostre incertezze, che cercano di diventare o magari trasformarsi in verità. Ritrovando, chissà, il senso genuino della fede, che tra l’altro è un pellegrinare dentro di noi e nelle attese che ci navigano nel mistero, scommettendo sul tempo come vettore verso di noi, l’altro e l’Altro.
+ Vincenzo Bertolone
(Arcivescovo di Catanzaro-Squillace)