28.02.2016
Le maschere e i volti nella contemporaneità che ci attraversa.
Pirandello aveva ragione
di Pierfranco Bruni
Le epoche delle lingue costruiscono le epoche della letteratura in un parametro metaforico che può leggersi sia attraverso i segni estetici sia grazie ad una interpretazione che è, puramente, semantica. In Luigi Pirandello è come se si intrecciassero i linguaggi, che nascono in quel mondo mediterraneo, arabo – islamico, che è la sua Girgenti e si fa, comunque, senso del tragico che diventa estetica della ricerca del personaggio. Il personaggio uomo diventa il personaggio maschera.
La maschera, nel suo mondo greco, è persona. Ma è anche l’incipit della teatralizzazione che si ascolta non soltanto nel teatro definito tale, bensì anche nella sua poesia o, meglio, nella sua espressione di un linguaggio in versi. Il teatro è una religiosa pazienza che vive la persona, che è assorbita dalla maschera, che è impregnata di solitudine.
Credo che in Pirandello tutto sia teatro. Capiamoci. Non mi riferisco al teatro considerato come rappresentazione teatrale tradizionale con un suo scenario e una sua ribalta e un suo pubblico. La teatralità, in Pirandello, è data dal linguaggio che cerca il personaggio e anche dalla funzione del personaggio, che ha bisogno della parola e delle forme per restare maschera fino in fondo.
La “confessione di una maschera”, ben identificata di Yukio Mishima, diventa in Pirandello ciò che Maria Zambrano ha chiamato “confessione come genere letterario”. La confessione di Pirandello è la traducibilità dell’assurdo di Ionesco, ma anche di Empedocle, suo conterraneo, che ha dettato la tragicità del linguaggio nella visione moderna del rapporto tra vita e morte.
Un sistema di idee che viene assunto dalla letteratura tradizionalista che va da Drieu La Rochelle a Robert Brasillach sino a toccare la singolarità di Giuseppe Berto. Il teatro, per non smentire Diego Fabbri, ha sempre una profondità religiosa perché in esso il teatro della vita è il teatro del limite, ovvero della morte anche se, per sottolineare la Zambrano, “L’istante immediato lascia intravedere l’aldilà”.
In fondo i Sei personaggi in cerca d’autore sono l’interferenza del vuoto nella rappresentatività del reale e dell’assurdo della maschera – persona. Perché la maschera è persona. La cultura greca è cultura dell’impassibile legame tra la verità, che non corrisponde alla realtà, e la menzogna, che non corrisponde alla bugia.
Antonio Machado, in alcuni versi, è come se “descrivesse” il destino di Mattia Pascal o di Enrico IV o di Pirandello stesso quando recita: “Si mente più del previsto per mancanza di fantasia: anche la verità si inventa”.
Certo, per Pirandello la fantasia è una verità, ma quella verità pirandelliana non solo resta un “gioco delle parti”, piuttosto si fa impossibile menzogna perché è il sogno che intrappola il senso tragico della vita che si respira nella complicata solitudine dei personaggi.
In Pirandello c’è sempre un essere “nati a metà”. Ovvero, i personaggi tra l’essere maschera e l’essere persona sembrano vivere una favola, un senso tragico nella favola. Si pensi il sonaglio del berretto o Liolà o alcuni versi di Mal giocondo.
Pirandello accoglie i personaggi che si agitano come fantasmi nel suo essere viandante nelle confessioni. Bene ha sottolineato ancora Maria Zambrano nel sostenere: “Aver dato accoglienza ai personaggi della favola dell’eterna favola nella tragedia dell’essere uomini, nient’altro che uomini, cioè essere nati a metà”. Si è sempre dentro il viaggio di Uno, nessuno e centomila perché si resta dei viandanti senza dimora. Si può vivere come “giganti della montagna” e non capire che si è tutti dei personaggi mancanti di una presenza o personaggi della mancanza?
In Si gira e poi con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915 e poi 1925) si legge: “l’uomo… può sfuggire all’eterno tormento dell’insaziabilità solo a patto che sappia estraniarsi dalla vita, guardandola dal di fuori”. Forse il Pirandello che abbiamo cercato nelle nostre sere di inquietudine era custodito nella verità dell’insaziabile.
Costantemente contemporaneo?
Certamente contemporaneo perché supera la storia e il suo “teatro” si infrange ai piedi della montagna sacra che è il tragico ineluttabile. Mishima ci ha insegnato: “La vita è una danza nel cratere di un vulcano: erutterà, ma non sappiamo quando”. Pirandello non ha forse vissuto su questo palcoscenico?
Tale palco – scenico non è una verità o la verità, non è neppure una finzione o la finzione. È semplicemente la maschera. Non una maschera che costruiamo giorno dopo giorno, ma la maschera che ci è stata consegnata nel momento in cui siamo nati. Il destino? Chiamiamola “danza” come dice Mishima con il sublime dell’alchimia.
Non tutti riescono a mantenere la danza con un passo tra il silenzio e la solitudine, perché se le maschere ci inseguono è difficile, in questa contemporaneità smarrita tra le allodole della memoria e l’ambiguità del moderno, poter vivere con dei volti: “… incontrerai tante maschere e pochi volti…” (Luigi Pirandello).
Ci è dato vivere un linguaggio che è furtivo, rubato alle radici, lacerato nel presente, definito nel dolore, eppure anche recitando a soggetto restiamo inevitabilmente dentro la nostra verità. Ed è così che la maschera si confessa e cerca di uscire dallo specchio per mostrarsi con il suo volto anche se “non si sa come” (Non si sa come, dramma rappresentato nel 1934 e poi nel 1935).
Le maschere e i volti nella contemporaneità che ci attraversa.
Pirandello aveva ragione
di Pierfranco Bruni
Le epoche delle lingue costruiscono le epoche della letteratura in un parametro metaforico che può leggersi sia attraverso i segni estetici sia grazie ad una interpretazione che è, puramente, semantica. In Luigi Pirandello è come se si intrecciassero i linguaggi, che nascono in quel mondo mediterraneo, arabo – islamico, che è la sua Girgenti e si fa, comunque, senso del tragico che diventa estetica della ricerca del personaggio. Il personaggio uomo diventa il personaggio maschera.
La maschera, nel suo mondo greco, è persona. Ma è anche l’incipit della teatralizzazione che si ascolta non soltanto nel teatro definito tale, bensì anche nella sua poesia o, meglio, nella sua espressione di un linguaggio in versi. Il teatro è una religiosa pazienza che vive la persona, che è assorbita dalla maschera, che è impregnata di solitudine.
Credo che in Pirandello tutto sia teatro. Capiamoci. Non mi riferisco al teatro considerato come rappresentazione teatrale tradizionale con un suo scenario e una sua ribalta e un suo pubblico. La teatralità, in Pirandello, è data dal linguaggio che cerca il personaggio e anche dalla funzione del personaggio, che ha bisogno della parola e delle forme per restare maschera fino in fondo.
La “confessione di una maschera”, ben identificata di Yukio Mishima, diventa in Pirandello ciò che Maria Zambrano ha chiamato “confessione come genere letterario”. La confessione di Pirandello è la traducibilità dell’assurdo di Ionesco, ma anche di Empedocle, suo conterraneo, che ha dettato la tragicità del linguaggio nella visione moderna del rapporto tra vita e morte.
Un sistema di idee che viene assunto dalla letteratura tradizionalista che va da Drieu La Rochelle a Robert Brasillach sino a toccare la singolarità di Giuseppe Berto. Il teatro, per non smentire Diego Fabbri, ha sempre una profondità religiosa perché in esso il teatro della vita è il teatro del limite, ovvero della morte anche se, per sottolineare la Zambrano, “L’istante immediato lascia intravedere l’aldilà”.
In fondo i Sei personaggi in cerca d’autore sono l’interferenza del vuoto nella rappresentatività del reale e dell’assurdo della maschera – persona. Perché la maschera è persona. La cultura greca è cultura dell’impassibile legame tra la verità, che non corrisponde alla realtà, e la menzogna, che non corrisponde alla bugia.
Antonio Machado, in alcuni versi, è come se “descrivesse” il destino di Mattia Pascal o di Enrico IV o di Pirandello stesso quando recita: “Si mente più del previsto per mancanza di fantasia: anche la verità si inventa”.
Certo, per Pirandello la fantasia è una verità, ma quella verità pirandelliana non solo resta un “gioco delle parti”, piuttosto si fa impossibile menzogna perché è il sogno che intrappola il senso tragico della vita che si respira nella complicata solitudine dei personaggi.
In Pirandello c’è sempre un essere “nati a metà”. Ovvero, i personaggi tra l’essere maschera e l’essere persona sembrano vivere una favola, un senso tragico nella favola. Si pensi il sonaglio del berretto o Liolà o alcuni versi di Mal giocondo.
Pirandello accoglie i personaggi che si agitano come fantasmi nel suo essere viandante nelle confessioni. Bene ha sottolineato ancora Maria Zambrano nel sostenere: “Aver dato accoglienza ai personaggi della favola dell’eterna favola nella tragedia dell’essere uomini, nient’altro che uomini, cioè essere nati a metà”. Si è sempre dentro il viaggio di Uno, nessuno e centomila perché si resta dei viandanti senza dimora. Si può vivere come “giganti della montagna” e non capire che si è tutti dei personaggi mancanti di una presenza o personaggi della mancanza?
In Si gira e poi con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915 e poi 1925) si legge: “l’uomo… può sfuggire all’eterno tormento dell’insaziabilità solo a patto che sappia estraniarsi dalla vita, guardandola dal di fuori”. Forse il Pirandello che abbiamo cercato nelle nostre sere di inquietudine era custodito nella verità dell’insaziabile.
Costantemente contemporaneo?
Certamente contemporaneo perché supera la storia e il suo “teatro” si infrange ai piedi della montagna sacra che è il tragico ineluttabile. Mishima ci ha insegnato: “La vita è una danza nel cratere di un vulcano: erutterà, ma non sappiamo quando”. Pirandello non ha forse vissuto su questo palcoscenico?
Tale palco – scenico non è una verità o la verità, non è neppure una finzione o la finzione. È semplicemente la maschera. Non una maschera che costruiamo giorno dopo giorno, ma la maschera che ci è stata consegnata nel momento in cui siamo nati. Il destino? Chiamiamola “danza” come dice Mishima con il sublime dell’alchimia.
Non tutti riescono a mantenere la danza con un passo tra il silenzio e la solitudine, perché se le maschere ci inseguono è difficile, in questa contemporaneità smarrita tra le allodole della memoria e l’ambiguità del moderno, poter vivere con dei volti: “… incontrerai tante maschere e pochi volti…” (Luigi Pirandello).
Ci è dato vivere un linguaggio che è furtivo, rubato alle radici, lacerato nel presente, definito nel dolore, eppure anche recitando a soggetto restiamo inevitabilmente dentro la nostra verità. Ed è così che la maschera si confessa e cerca di uscire dallo specchio per mostrarsi con il suo volto anche se “non si sa come” (Non si sa come, dramma rappresentato nel 1934 e poi nel 1935).