Pirandello e Pavese: gli scrittori del tragico e della dissolvenza
in un tempo inquieto
Pierfranco Bruni
in un tempo inquieto
Pierfranco Bruni
ll senso tragico non è una visione melanconica o una inquietudine che percorre le vite, gli uomini e i personaggi nel destino teatralizzato dei giorni. È la profondità che tocca il vuoto. È l’abisso. È il profetico dolore dell’animo. Luigi Pirandello maschera la lacerazione del senso tragico con la poetica dell’umorismo. Lentamente penetra e diventa senso di morte.
Spesso Pirandello ha pensato al suicidio. La sua vita è attraversata dal pensiero della morte. Come in Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino 1950). Pirandello è stato salvato dalla scrittura ed ha fatto della sua solitudine una testimonianza di linguaggio attraversando l’essere solo.
Nella Novella “La trappola” Pirandello scrive: “La vita è flusso continuo, incandescente e indistinto. La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco, non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto è la morte”.
La contraddizione non si pone nel momento in cui si lega il tragico alla morte. Il tragico non è una forma. Il sublime è la caratteristica di un vissuto interiore, in cui la solitudine è la pre – scena in uno scavo che è fatto di camminamento negli inferi dell’anima. Come, appunto, in Pavese, che dal senso tragico del tempo del suo esistere, precipita nella morte, in quel suicidio più volte annunciato e che la letteratura non è bastata a fargli superare.
Pirandello è stato salvato dalla letteratura e dalla presenza – assenza di Marta Abba.
Invece Pavese con La luna e i falò aveva terminato il suo viaggio che culminerà in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ma non vive una presenza – assenza, bensì l’assenza e la lontananza dell’attrice americana Constance Dowling.
Due attrici per due scrittori che vivono il senso del tragico tra la scrittura e la vita.
Certo, Marta Abba non è Costance Dowling, ma entrambe recitano, con i “loro” scrittori la terribile agonia di un amore che era nato dall’incontro di sguardi e di tenerezze, ma si era “pianificato” in una dimensione onirica che è quella della letteratura e della recita. Il teatro per Marta Abba. Il cinema per Constance Dowling.
Due scrittori di generazioni completamente diverse per due attrici che hanno in comune il mistero, la magia e fanno della recita un paesaggio di alchimie. Sia Pirandello che Pavese abiteranno la solitudine, la quale diventerà il centro e il labirinto di un mosaico che è estremamente rischioso, come, infatti, lo è stato per Pavese.
Pirandello consegna al non finito la sua “Montagna” e i suoi “Giganti” che resteranno metafore e suoni, scavi di anima e metafisiche irrisolte. NeiGiganti della Montagna (con le iniziali maiuscole) il sacro segno dell’archetipo è un mito, che non conosce la storia.
Con Leucò Pavese si concede, grazie ad un dialogare con i miti e il sublime, completamente alla griglia della classicità greca che va oltre la storia stessa.
Tra i due insiste sempre la solitudine. Quella solitudine di cui parlerà, (donchisciottescamente) Maria Zambrano, sottolineando di Pirandello: “L’uomo che cammina solitario, sconosciuto agli altri e a se stesso, è il protagonista di tutte le opere di Pirandello…”.
Per Pavese, i suoi scritti sono ricchi di un immenso immaginario di solitudini: l’uomo solo ha pensieri che camminano nella sua solitudine, l’uomo solo è l’uomo che non smette di pensare, l’uomo che vive il mare trova la sua quarta dimensione, ovvero la solitudine.
Insomma questo senso tragico è la chiave di lettura del suicidio e, a priori o nell’incipit dell’esistere, si ha la consapevolezza di essere condannati ad una infinita solitudine che vive di echi e di voci che giungono da antiche distanze.
In una lettera del 1924 Pirandello scriveva: “Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità d’ingannare di continuo, noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosi è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che s’ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno” (da una Lettera inviata al direttore del periodico romano “Le Lettere”, Filippo Sùrico, in data 15 ottobre 1924).
Per Pavese “…tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri….”. Ma realmente Pavese intendeva comunicare con gli altri?
Tra la solitudine di Pavese e la compassione di Pirandello vi sono la meditazione e l’abisso. Pavese non poteva non sottoscrivere questa osservazione di Pirandello quando afferma: “La meditazione è l’abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce non vi penetra mai, e il desiderio di averlo sprofonda sempre di più nelle tenebre dense” (da una Lettera alla sorella Lina datata 31 ottobre 1886).
Pavese nel suo Diario annotava semplicemente: “L'unico modo di sfuggire all'abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi”.
La scrittura salverà?
Pirandello sempre nella lettera alla sorella dirà: “Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distormi dalla disperazione”.
Pavese si “inventerà” il mestiere di scrivere per tentare di sfuggire a quella disperazione che lo porterà nel gorgo muto: “Scenderemo nel gorgo muti”.
In entrambi si pone una questione sia culturale che estetica.
La letteratura può essere salvifica?
La scrittura può condurre oltre la morte pur vivendo quotidianamente il senso tragico?
Antonio Gramsci si soffermò sul valore culturale dell’opera di Pirandello piuttosto che sul valore estetico, anzi disse che il primo era chiaramente prevalente sul secondo.
Io credo che l’estetica in Pirandello sia stata centrale, come in D’Annunzio l’estasi – estetica. Ma ciò che ha salvato Pirandello dal suicidio, comunque, è stata la meditazione intensa su una ironia – umorismo che ha contrapposto il gioco delle parti tra l’io e i personaggi o tra i personaggi e l’io nei diversi personaggi in una contorsione tra recita e realtà.
Ciò che non è stato in Pavese. In Pavese non c’è l’ironia anche se molto insistette sulla visione ironica. Quell’abisso pavesiano sarà il suicidio. Anche in Constance Pavese aveva letto il simbolico gesto dell’ultima donna con la serena consapevolezza della quiete che verrà dopo.
La scrittura non ha salvato Pavese.
Pirandello ha cercato nella scrittura l’abisso perché quel suo male, come dirà alla sorella Lina: “…è una tristezza profonda che ora scende all'ironia del riso, ora sale in un'empito penoso a un desiderio amaro di lagrime. E vorrei piangere, piangere a lungo, o a lungo ridere per disfogare questa mia grande malinconia ma né l'una cosa, n'è l'altra mi è data, e il pianto sempre mi fa nodo alla gola, e il riso mi muore in una smorfia fredda sulle labbra. Questo è il vero mio male ed è cagionato da un 'anelanza', che ha tutte le sofferenze d'una passione, d'esser migliore” (Lettera a Lina del febbraio 1889).
Pavese è struggente ma darà per sé una risposta risolutiva e disperata: “La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione”. Ancora: “È concepibile che si ammazzi una persona per contare nella sua vita? − E allora è concepibile che ci si ammazzi per contare nella propria”. E poi: “Il maggiore torto del suicida è non d’uccidersi, ma di pensarci e non farlo. Niente è più abbietto dello stato di disintegrazione morale cui porta l’idea − l’abitudine dell’idea − del suicidio”.
Così è. Se ci (vi) pare!
Davanti a questo specchio, che riflette entrambi, esiste solo il disordine, la consapevolezza del vano e del vuoto e una inquieta necessità di viversi nella solitudine o di dissolversi nel gesto ultimo.
Pirandello e Pavese: gli scrittori del tutto e dell’impossibile, del tragico e dell’indefinibile disperazione.
Spesso Pirandello ha pensato al suicidio. La sua vita è attraversata dal pensiero della morte. Come in Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino 1950). Pirandello è stato salvato dalla scrittura ed ha fatto della sua solitudine una testimonianza di linguaggio attraversando l’essere solo.
Nella Novella “La trappola” Pirandello scrive: “La vita è flusso continuo, incandescente e indistinto. La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco, non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto è la morte”.
La contraddizione non si pone nel momento in cui si lega il tragico alla morte. Il tragico non è una forma. Il sublime è la caratteristica di un vissuto interiore, in cui la solitudine è la pre – scena in uno scavo che è fatto di camminamento negli inferi dell’anima. Come, appunto, in Pavese, che dal senso tragico del tempo del suo esistere, precipita nella morte, in quel suicidio più volte annunciato e che la letteratura non è bastata a fargli superare.
Pirandello è stato salvato dalla letteratura e dalla presenza – assenza di Marta Abba.
Invece Pavese con La luna e i falò aveva terminato il suo viaggio che culminerà in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ma non vive una presenza – assenza, bensì l’assenza e la lontananza dell’attrice americana Constance Dowling.
Due attrici per due scrittori che vivono il senso del tragico tra la scrittura e la vita.
Certo, Marta Abba non è Costance Dowling, ma entrambe recitano, con i “loro” scrittori la terribile agonia di un amore che era nato dall’incontro di sguardi e di tenerezze, ma si era “pianificato” in una dimensione onirica che è quella della letteratura e della recita. Il teatro per Marta Abba. Il cinema per Constance Dowling.
Due scrittori di generazioni completamente diverse per due attrici che hanno in comune il mistero, la magia e fanno della recita un paesaggio di alchimie. Sia Pirandello che Pavese abiteranno la solitudine, la quale diventerà il centro e il labirinto di un mosaico che è estremamente rischioso, come, infatti, lo è stato per Pavese.
Pirandello consegna al non finito la sua “Montagna” e i suoi “Giganti” che resteranno metafore e suoni, scavi di anima e metafisiche irrisolte. NeiGiganti della Montagna (con le iniziali maiuscole) il sacro segno dell’archetipo è un mito, che non conosce la storia.
Con Leucò Pavese si concede, grazie ad un dialogare con i miti e il sublime, completamente alla griglia della classicità greca che va oltre la storia stessa.
Tra i due insiste sempre la solitudine. Quella solitudine di cui parlerà, (donchisciottescamente) Maria Zambrano, sottolineando di Pirandello: “L’uomo che cammina solitario, sconosciuto agli altri e a se stesso, è il protagonista di tutte le opere di Pirandello…”.
Per Pavese, i suoi scritti sono ricchi di un immenso immaginario di solitudini: l’uomo solo ha pensieri che camminano nella sua solitudine, l’uomo solo è l’uomo che non smette di pensare, l’uomo che vive il mare trova la sua quarta dimensione, ovvero la solitudine.
Insomma questo senso tragico è la chiave di lettura del suicidio e, a priori o nell’incipit dell’esistere, si ha la consapevolezza di essere condannati ad una infinita solitudine che vive di echi e di voci che giungono da antiche distanze.
In una lettera del 1924 Pirandello scriveva: “Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità d’ingannare di continuo, noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosi è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che s’ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno” (da una Lettera inviata al direttore del periodico romano “Le Lettere”, Filippo Sùrico, in data 15 ottobre 1924).
Per Pavese “…tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri….”. Ma realmente Pavese intendeva comunicare con gli altri?
Tra la solitudine di Pavese e la compassione di Pirandello vi sono la meditazione e l’abisso. Pavese non poteva non sottoscrivere questa osservazione di Pirandello quando afferma: “La meditazione è l’abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce non vi penetra mai, e il desiderio di averlo sprofonda sempre di più nelle tenebre dense” (da una Lettera alla sorella Lina datata 31 ottobre 1886).
Pavese nel suo Diario annotava semplicemente: “L'unico modo di sfuggire all'abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi”.
La scrittura salverà?
Pirandello sempre nella lettera alla sorella dirà: “Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distormi dalla disperazione”.
Pavese si “inventerà” il mestiere di scrivere per tentare di sfuggire a quella disperazione che lo porterà nel gorgo muto: “Scenderemo nel gorgo muti”.
In entrambi si pone una questione sia culturale che estetica.
La letteratura può essere salvifica?
La scrittura può condurre oltre la morte pur vivendo quotidianamente il senso tragico?
Antonio Gramsci si soffermò sul valore culturale dell’opera di Pirandello piuttosto che sul valore estetico, anzi disse che il primo era chiaramente prevalente sul secondo.
Io credo che l’estetica in Pirandello sia stata centrale, come in D’Annunzio l’estasi – estetica. Ma ciò che ha salvato Pirandello dal suicidio, comunque, è stata la meditazione intensa su una ironia – umorismo che ha contrapposto il gioco delle parti tra l’io e i personaggi o tra i personaggi e l’io nei diversi personaggi in una contorsione tra recita e realtà.
Ciò che non è stato in Pavese. In Pavese non c’è l’ironia anche se molto insistette sulla visione ironica. Quell’abisso pavesiano sarà il suicidio. Anche in Constance Pavese aveva letto il simbolico gesto dell’ultima donna con la serena consapevolezza della quiete che verrà dopo.
La scrittura non ha salvato Pavese.
Pirandello ha cercato nella scrittura l’abisso perché quel suo male, come dirà alla sorella Lina: “…è una tristezza profonda che ora scende all'ironia del riso, ora sale in un'empito penoso a un desiderio amaro di lagrime. E vorrei piangere, piangere a lungo, o a lungo ridere per disfogare questa mia grande malinconia ma né l'una cosa, n'è l'altra mi è data, e il pianto sempre mi fa nodo alla gola, e il riso mi muore in una smorfia fredda sulle labbra. Questo è il vero mio male ed è cagionato da un 'anelanza', che ha tutte le sofferenze d'una passione, d'esser migliore” (Lettera a Lina del febbraio 1889).
Pavese è struggente ma darà per sé una risposta risolutiva e disperata: “La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione”. Ancora: “È concepibile che si ammazzi una persona per contare nella sua vita? − E allora è concepibile che ci si ammazzi per contare nella propria”. E poi: “Il maggiore torto del suicida è non d’uccidersi, ma di pensarci e non farlo. Niente è più abbietto dello stato di disintegrazione morale cui porta l’idea − l’abitudine dell’idea − del suicidio”.
Così è. Se ci (vi) pare!
Davanti a questo specchio, che riflette entrambi, esiste solo il disordine, la consapevolezza del vano e del vuoto e una inquieta necessità di viversi nella solitudine o di dissolversi nel gesto ultimo.
Pirandello e Pavese: gli scrittori del tutto e dell’impossibile, del tragico e dell’indefinibile disperazione.