Aspetto i pensieri senza le parole. Un pensiero taciuto. Non ci sono giorni che ti toccano in modo particolare. L'ovvietà della morte ti costringe a non essere banale.
Ma chi ha mai detto che la banalità non sia realmente una salvezza?
Bisogna morire per fare l'elogio alla banalità? Ed io sono morto sino al punto di ricredermi sul fatto che la banalità non ci permetterà di comprendere che si muore. Il tragico greco è nella contemplazione degli Orienti. Mi porto dentro gli Orienti e la Magna Grecia.
In ogni passaggio di nostalgie perdute affiorano gesti di eredità e i sogni ci aiutano a vivere ma anche a morire dolcemente. Cosa è morire dolcemente di malinconia?
Il tempo è impareggiabile. Passa. Trascorre come un vento che tocca le corde del trapezista. Si resta sulla corda del trapezista sino a intrecciarla con la maschera. Ma arriva sempre il sogno. Medea è una leggenda triste e Tiresia racconta. Oltre c’è la memoria…
Ho sognato mia madre. Questa greca donna dal profilo marcato.
Attraversava una strada.
L’ho vista attraversare una strada. Si è poi fermata al ciglio che portava oltre…
Da una contesto piuttosto scuro, con nuvole e ombre, camminando lentamente, stava per raggiungere una distesa di verde di alberi fitti, ma si intravedeva, nelle immagini dell’immaginario, una grande luce.
Io sono andato incontro proprio mentre stava varcando la soglia.
Le ho gridato:
Ma', perché sei andata via senza salutarmi… Sai che ti voglio tanto bene... Sai che sei la mia àncora di sempre…
E lei subito tra lo spaventato e il curioso:
Pie' che ci fai qui... Tu mi vuoi bene, lo so, ma non puoi immaginarti il bene che ti voglio io... Non puoi minimamente immaginartelo...ti ricordi ti ricordi… Ma ora devi subito andartene via da qui... Chi ti ha condotto qui…Abbracciami forte forte e fatti abbracciare con forza, ma devi immediatamente andar via da qui... Sei tu che non devi dimenticare… Io qui vivo con te…
Mi ha guardato e ha ripreso il suo lento camminare verso una campagna verde... Con alberi e sembrava una foresta…
Camminava appoggiandosi ad un bastone e aveva accanto una donna con un camice o una vestaglia di colore bianca...
L'ho proprio vista
l'ho toccata
mi ha baciato e con forza ha voluto che andassi via
da quel luogo...
Poi mi sono svegliato improvvisamente, quasi spaesato, ed ero, comunque, sereno...
Meno sereno oggi che penso costantemente al sogno che è e resta verità dentro di me…
Aveva il volto bello e pensoso...
L’abbraccio l'ho sentito
e anche la sua voce ed era la sua voce
il suo sguardo il suo sguardo
il suo volto il suo volto
il suo passo il suo passo…
aveva la maestosità di sempre anche appoggiata ad un bastone…
penso spesso alle pagine meravigliose di Pirandello dedicate alla madre.
Sono le parole più metafisiche che un figlio possa scrivere, possa aver scritto alla madre assente presente.
Sono la malinconia più pungente che uno scrittore possa portare dentro il proprio cuore.
Pirandello:
''Mamma io non stacco un solo momento il mio pensiero da te e ti vedo come se ti fossi davanti e mi struggo di non poterti baciare codeste sante mani, che tante cure e tante carezze mi diedero quando forse d'un tuo conforto e d'una tua carezza non sentivo il disperato bisogno che sento adesso! Ma non credere, mamma mia, che il mio animo non sia forte. Io resisto con coraggio alla prova; ma sento che meglio resisterei se ti fossi vicino, se tu con gli occhi amorosi mi sostenessi di tanto in tanto'' .
Leggo sottovoce un brano che trovo nel “Colloquio con la madre” di un Pirandello che strappa tutti i veli, dimenticando il presente, un pensiero forte che è stato scritto a Roma l’11 agosto del 1915
.
Così:
“...Non sono io forse viva sempre per te?
- Oh, Mamma, sì! - io le dico. – Viva, viva, sì... ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t'immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t'ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! E' caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com'eri, con la stessa realtà che per tanti anni t'ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com'io ti penso, tu non puoi più sentirmi com'io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l'avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l'avrò più in te. Tu se qui; tu m'hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più...
L'ombra s'è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronte, che per poco m'illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre. Mi alzo; m'accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d'acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s'abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. E' un moto d'onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
“Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle” (pubblicato in prima versione sul “Giornale di Sicilia”, 17-18 agosto 1915, ora in Novelle per un anno, volume terzo, tomo II, Mondadori).
Ed ora che dire?
Medea non mi appartiene. È un gioco al massacro del destino.
La madre è la Mater che portiamo nell’anima ed è anima quando non c’è più. Questo non esserci più resta una contraddizione. Profonda. Segnata nella roccia. Roccia di mare.
Una voce mi sussurra:
Non raccontare con il pianto di Alcippe i doni della luna.
Le parole che ascolti hanno tranciato ogni memoria
e il tempo che porti negli occhi
è mortale come il canto
di Penelope.
Cammino a passi lenti tra le parole. E cerco soltanto i pensieri che non si fanno parole. Aspetto i pensieri che non diventano parole. La grecità negli Orienti è immenta e gli Orienti sono il vento dei Mediterranei.
Il resto l’ho già consumato!
Resto in attesa dei pensieri che non si fanno parola”
Ma chi ha mai detto che la banalità non sia realmente una salvezza?
Bisogna morire per fare l'elogio alla banalità? Ed io sono morto sino al punto di ricredermi sul fatto che la banalità non ci permetterà di comprendere che si muore. Il tragico greco è nella contemplazione degli Orienti. Mi porto dentro gli Orienti e la Magna Grecia.
In ogni passaggio di nostalgie perdute affiorano gesti di eredità e i sogni ci aiutano a vivere ma anche a morire dolcemente. Cosa è morire dolcemente di malinconia?
Il tempo è impareggiabile. Passa. Trascorre come un vento che tocca le corde del trapezista. Si resta sulla corda del trapezista sino a intrecciarla con la maschera. Ma arriva sempre il sogno. Medea è una leggenda triste e Tiresia racconta. Oltre c’è la memoria…
Ho sognato mia madre. Questa greca donna dal profilo marcato.
Attraversava una strada.
L’ho vista attraversare una strada. Si è poi fermata al ciglio che portava oltre…
Da una contesto piuttosto scuro, con nuvole e ombre, camminando lentamente, stava per raggiungere una distesa di verde di alberi fitti, ma si intravedeva, nelle immagini dell’immaginario, una grande luce.
Io sono andato incontro proprio mentre stava varcando la soglia.
Le ho gridato:
Ma', perché sei andata via senza salutarmi… Sai che ti voglio tanto bene... Sai che sei la mia àncora di sempre…
E lei subito tra lo spaventato e il curioso:
Pie' che ci fai qui... Tu mi vuoi bene, lo so, ma non puoi immaginarti il bene che ti voglio io... Non puoi minimamente immaginartelo...ti ricordi ti ricordi… Ma ora devi subito andartene via da qui... Chi ti ha condotto qui…Abbracciami forte forte e fatti abbracciare con forza, ma devi immediatamente andar via da qui... Sei tu che non devi dimenticare… Io qui vivo con te…
Mi ha guardato e ha ripreso il suo lento camminare verso una campagna verde... Con alberi e sembrava una foresta…
Camminava appoggiandosi ad un bastone e aveva accanto una donna con un camice o una vestaglia di colore bianca...
L'ho proprio vista
l'ho toccata
mi ha baciato e con forza ha voluto che andassi via
da quel luogo...
Poi mi sono svegliato improvvisamente, quasi spaesato, ed ero, comunque, sereno...
Meno sereno oggi che penso costantemente al sogno che è e resta verità dentro di me…
Aveva il volto bello e pensoso...
L’abbraccio l'ho sentito
e anche la sua voce ed era la sua voce
il suo sguardo il suo sguardo
il suo volto il suo volto
il suo passo il suo passo…
aveva la maestosità di sempre anche appoggiata ad un bastone…
penso spesso alle pagine meravigliose di Pirandello dedicate alla madre.
Sono le parole più metafisiche che un figlio possa scrivere, possa aver scritto alla madre assente presente.
Sono la malinconia più pungente che uno scrittore possa portare dentro il proprio cuore.
Pirandello:
''Mamma io non stacco un solo momento il mio pensiero da te e ti vedo come se ti fossi davanti e mi struggo di non poterti baciare codeste sante mani, che tante cure e tante carezze mi diedero quando forse d'un tuo conforto e d'una tua carezza non sentivo il disperato bisogno che sento adesso! Ma non credere, mamma mia, che il mio animo non sia forte. Io resisto con coraggio alla prova; ma sento che meglio resisterei se ti fossi vicino, se tu con gli occhi amorosi mi sostenessi di tanto in tanto'' .
Leggo sottovoce un brano che trovo nel “Colloquio con la madre” di un Pirandello che strappa tutti i veli, dimenticando il presente, un pensiero forte che è stato scritto a Roma l’11 agosto del 1915
.
Così:
“...Non sono io forse viva sempre per te?
- Oh, Mamma, sì! - io le dico. – Viva, viva, sì... ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t'immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t'ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! E' caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com'eri, con la stessa realtà che per tanti anni t'ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com'io ti penso, tu non puoi più sentirmi com'io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l'avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l'avrò più in te. Tu se qui; tu m'hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più...
L'ombra s'è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronte, che per poco m'illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre. Mi alzo; m'accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d'acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s'abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. E' un moto d'onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
“Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle” (pubblicato in prima versione sul “Giornale di Sicilia”, 17-18 agosto 1915, ora in Novelle per un anno, volume terzo, tomo II, Mondadori).
Ed ora che dire?
Medea non mi appartiene. È un gioco al massacro del destino.
La madre è la Mater che portiamo nell’anima ed è anima quando non c’è più. Questo non esserci più resta una contraddizione. Profonda. Segnata nella roccia. Roccia di mare.
Una voce mi sussurra:
Non raccontare con il pianto di Alcippe i doni della luna.
Le parole che ascolti hanno tranciato ogni memoria
e il tempo che porti negli occhi
è mortale come il canto
di Penelope.
Cammino a passi lenti tra le parole. E cerco soltanto i pensieri che non si fanno parole. Aspetto i pensieri che non diventano parole. La grecità negli Orienti è immenta e gli Orienti sono il vento dei Mediterranei.
Il resto l’ho già consumato!
Resto in attesa dei pensieri che non si fanno parola”