“…la D.C. sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi anche tu con l’urgenza che si richiede”. Così Aldo Moro, nel centenario della nascita, scriveva a Bettino Craxi nei 55 giorni che lo portarono alla morte
di Pierfranco Bruni
di Pierfranco Bruni
A cento anni dalla nascita di Aldo Moro e a 16 anni dalla morte di Bettino Craxi i processi politici sono un intreccio di elementi in cui il trionfo dell’antipolitica è un dato evidente. I giorni che viviamo sono una vera e propria testimonianza. Il riformismo socialista ha pagato impressionanti conseguenze. Come anche i cattolici che hanno cercato di riflettere sul senso della politica come centralità della vita.
Si pone una riflessione forte e serena (che ha, comunque, una diversità di sfaccettature) sulla figura di Bettino Craxi (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000) e su Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978) a 30 anni dalla barbarie di Via Fani e Via Caetani. A cento anni dalla nascita di Aldo Moro.
Una riflessione non solo “umana” ma anche politica. Una tale meditazione non può che portarci a un confronto serrato su presente e futuro del socialismo riformista oggi. Ma anche sulla politica e sulla “legittimità” di un fare politica nel mondo cattolico.
Ci sono processi riformisti che si intagliano in uno spaccato storico che è caratterizzato da un modello culturale che va al di là di ogni dimensione o indicazione puramente ideologica. La morte di Bettino Craxi, nel gennaio di 16 anni fa, ha tirato in ballo una serie di attestazioni politiche che hanno la loro ragione d’essere proprio nella storia che ha contrassegnato l’Europa, soprattutto negli ultimi decenni. Ci sono valutazioni storiche che hanno una valenza prettamente ideologica ma ci sono anche valutazioni culturali che hanno una loro presenza nel contesto che stiamo attraversando.
La presenza di Craxi, nel panorama italiano dal 1976 o dal 1978 in poi, ha “scombinato” alcuni piani all’interno non solo della sinistra, ma soprattutto all’interno di un rapporto tra cattolici-laicisti-relativisti e comunisti. E questo fatto, lo si legga come si vuole (sia sul piano ideologico sia su quello culturale), è stato prioritario in quella frontiera anticomunista che non ha permesso alla sinistra comunista, allora, di governare.
Intorno a Craxi si è creato un movimento sia riformista sia moderata sia cattolica. Perché se si osserva la situazione che va dal 1978 in poi ci si rende conto come il riformismo craxiano ha tenuto banco non solo nei confronti del comunismo sommerso e dilagante ma anche nei confronti del cattocomunismo o della sinistra democristiana (relativista) allineata su posizioni dossettiane, che dimostrano, proprio in questi giorni, un fallimento emblematico.
Non ci si deve dimenticare la stagione della solidarietà nazionale o di quello che fu definito compromesso storico. Craxi ha avuto la capacità di rompere alcuni steccati nella sinistra storica ponendosi al centro del dibattito politico degli anni Ottanta sino ai primi del Novanta, ma ha avuto anche il merito di sdoganare una concezione che vedeva la destra costantemente emarginata.
Il caso Moro ha segnato l’inizio (quando si scriverà, senza la faziosità delle ideologie, la storia contemporanea si comprenderà che la svolta italiana comincia proprio con l’uccisione di Aldo Moro) di un percorso politico che poneva il Psi al di fuori di una concezione cattoleninista per due motivi essenziali.
Primo perché non aveva mai accettato un governo di solidarietà nazionale con i comunisti garanti, presieduto da Giulio Andreotti. E la posizione di Craxi fu chiara sin dall’inizio.
Secondo perché la posizione che assunse Craxi, nel corso dei cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro, fu non solo trattatista ma profondamente umanitaria nei confronti di una posizione di fermezza che andava al di là dell’umanitas e del senso della pietà stessa. Una posizione che dava senso ai valori dell’umanesimo perché puntava a salvare Moro al di là del dato politico stesso. Una posizione che non fu sottovalutata e spaccava frontalmente sia i comunisti sia quei democristiani appiattiti su Berlinguer.
Quella posizione non fu sottovalutata neppure da Aldo Moro il quale scrisse in data 30 aprile 1978 una lettera a Bettino Craxi nella quale sottolineava: “Caro Craxi,/
poiché ho colto … una forte sensibilità umanitaria del tuo Partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa. (…) … io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta che non è quella della declamazione. Anche la D.C. sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi anche tu con l’urgenza che si richiede”.
C’è un passaggio fondamentale che è quello della richiesta di Moro, a Craxi, di spiegare alla D.C. come stavano realmente le cose. E Craxi allora si mobilitò e fu l’unico ad avere il coraggio (l’ho scritto nei miei libri dedicati ad Aldo Moro) di esprimersi con chiarezza contro quel patto della fermezza che portò inevitabilmente alla morte dello statista democristiano.
Perché assunse quella posizione Craxi? Per calcoli politici? Perché così riusciva a svincolarsi dall’abbraccio tra comunisti e democristiani? Perché voleva e doveva dimostrare la sua piena autonomia nei confronti dei comunisti? O perché alla base di quel socialismo riformista vi era l’espressione di un vero umanitarismo che poneva al centro i valori dell’uomo?
Sottolineo questo perché credo che il 1978 fu una data emblematica per Bettino Craxi, il quale sancì un fatto importante, nella visione storica complessiva, che era l’anticomunismo sul piano di una “vertenza” ideologica. Non per caso quella sua posizione impose una riflessione seria e mise il partito comunista, e tutta la sinistra, davanti a responsabilità precise.
Proprio in quell’anno sollevò un dibattito su una figura fondamentale del pensiero riformista. Mi riferisco a Proudhon sul quale scrisse un significativo saggio pubblicato su “l’Espresso”. Ma fece riflettere, in quella temperie, su Giuseppe Garibaldi, il quale non piaceva a Marx e non faceva parte e non fa parte né del marxismo né del comunismo. Fece riflettere su Carlo Rosselli e su tutta una tradizione laico – socialista.
Fece riflettere su uno scrittore messo all’indice da Togliatti e dai comunisti che morì proprio il 1978. Mi riferisco a Ignazio Silone. Il socialista senza chiesa o il cristiano senza chiesa: Silone. Bettino Craxi nel 1984 rese omaggio a Pescina alla tomba di Ignazio Silone. Quel Silone che cercava un’uscita di sicurezza per liberarsi dalla persecuzione comunista dopo essersi liberato dalla persecuzione fascista.
Craxi su Silone scrisse: “… stupisce che i suoi avversari non abbiano mai capito che con Silone essi avevano davanti un osso duro, una coerenza tenace e che contro di lui abbiano scelto di volta in volta la calunnia, l’irrisione, l’ostracismo, la congiura del silenzio senza capire che tutto ciò valeva poco o nulla contro un uomo pronto sempre a dimostrare ciò che asseriva, forte di scienza e d’intelletto, capace di sfidarli di fronte alla storia, come poi è puntualmente avvenuto”.
Proudhon, testimone del socialismo libertario, considerava Marx la “tenia del socialismo” e definiva il comunismo una “assurdità antidiluviana”. Non si era sbagliato Proudhon e non si era sbagliato Craxi già in quel 1978 ad offrirci quella lettura proprio su Proudhon. Molti nella sinistra non la capirono.
Forse sarebbe opportuno rileggere proprio quel saggio che Craxi scrisse su Proudhon. E’ ancora attuale nonostante i decenni passati e i muri crollati. I cattolici non dovrebbero fare a meno di Aldo Moro. Un Aldo Moro che aveva saputo attraversare sia De Gasperi e Sturzo e non Dossetti. Ma i 55 giorni della tragedia dello statista democristiano restano una testimonianza importante per capire i nuovi risvolti di una politica che superava il senso e l’orizzonte stesso del pensiero. D’altronde nella storia della politica e della cultura cattolica c’è ancora una figura ingombrante che è Augusto Del Noce. Del Noce aveva previsto il fallimento del dossettismo.
Moro non fu l’artefice del cattocomunismo. Ci si sbaglia quando si pensa ciò. Fu qualcosa d’altro. Inventò la tenuta cattolica (dopo le sconfitte del 1975 e del 1976 della D.C.) non allontanandosi mai dalla Chiesa e dai valori cristiani cercando di dialogare con i marxisti denudandoli politicamente.
La solidarietà nazionale ha portato al cadavere di Moro tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. Ma anche alle Lettere di Moro dalla prigionia del popolo che restano un documento certo politico e umano di una straordinaria importanza. Non dimentichiamo il ruolo di Prodi, (l’uomo della seduta spiritica), di Andreotti, di Cossiga, di Berlinguer e di quell’ala “pecchiolana” dalla quale sono nati i dirigenti comunisti prima e post comunisti dopo.
Si pone una riflessione forte e serena (che ha, comunque, una diversità di sfaccettature) sulla figura di Bettino Craxi (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000) e su Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978) a 30 anni dalla barbarie di Via Fani e Via Caetani. A cento anni dalla nascita di Aldo Moro.
Una riflessione non solo “umana” ma anche politica. Una tale meditazione non può che portarci a un confronto serrato su presente e futuro del socialismo riformista oggi. Ma anche sulla politica e sulla “legittimità” di un fare politica nel mondo cattolico.
Ci sono processi riformisti che si intagliano in uno spaccato storico che è caratterizzato da un modello culturale che va al di là di ogni dimensione o indicazione puramente ideologica. La morte di Bettino Craxi, nel gennaio di 16 anni fa, ha tirato in ballo una serie di attestazioni politiche che hanno la loro ragione d’essere proprio nella storia che ha contrassegnato l’Europa, soprattutto negli ultimi decenni. Ci sono valutazioni storiche che hanno una valenza prettamente ideologica ma ci sono anche valutazioni culturali che hanno una loro presenza nel contesto che stiamo attraversando.
La presenza di Craxi, nel panorama italiano dal 1976 o dal 1978 in poi, ha “scombinato” alcuni piani all’interno non solo della sinistra, ma soprattutto all’interno di un rapporto tra cattolici-laicisti-relativisti e comunisti. E questo fatto, lo si legga come si vuole (sia sul piano ideologico sia su quello culturale), è stato prioritario in quella frontiera anticomunista che non ha permesso alla sinistra comunista, allora, di governare.
Intorno a Craxi si è creato un movimento sia riformista sia moderata sia cattolica. Perché se si osserva la situazione che va dal 1978 in poi ci si rende conto come il riformismo craxiano ha tenuto banco non solo nei confronti del comunismo sommerso e dilagante ma anche nei confronti del cattocomunismo o della sinistra democristiana (relativista) allineata su posizioni dossettiane, che dimostrano, proprio in questi giorni, un fallimento emblematico.
Non ci si deve dimenticare la stagione della solidarietà nazionale o di quello che fu definito compromesso storico. Craxi ha avuto la capacità di rompere alcuni steccati nella sinistra storica ponendosi al centro del dibattito politico degli anni Ottanta sino ai primi del Novanta, ma ha avuto anche il merito di sdoganare una concezione che vedeva la destra costantemente emarginata.
Il caso Moro ha segnato l’inizio (quando si scriverà, senza la faziosità delle ideologie, la storia contemporanea si comprenderà che la svolta italiana comincia proprio con l’uccisione di Aldo Moro) di un percorso politico che poneva il Psi al di fuori di una concezione cattoleninista per due motivi essenziali.
Primo perché non aveva mai accettato un governo di solidarietà nazionale con i comunisti garanti, presieduto da Giulio Andreotti. E la posizione di Craxi fu chiara sin dall’inizio.
Secondo perché la posizione che assunse Craxi, nel corso dei cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro, fu non solo trattatista ma profondamente umanitaria nei confronti di una posizione di fermezza che andava al di là dell’umanitas e del senso della pietà stessa. Una posizione che dava senso ai valori dell’umanesimo perché puntava a salvare Moro al di là del dato politico stesso. Una posizione che non fu sottovalutata e spaccava frontalmente sia i comunisti sia quei democristiani appiattiti su Berlinguer.
Quella posizione non fu sottovalutata neppure da Aldo Moro il quale scrisse in data 30 aprile 1978 una lettera a Bettino Craxi nella quale sottolineava: “Caro Craxi,/
poiché ho colto … una forte sensibilità umanitaria del tuo Partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa. (…) … io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta che non è quella della declamazione. Anche la D.C. sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi anche tu con l’urgenza che si richiede”.
C’è un passaggio fondamentale che è quello della richiesta di Moro, a Craxi, di spiegare alla D.C. come stavano realmente le cose. E Craxi allora si mobilitò e fu l’unico ad avere il coraggio (l’ho scritto nei miei libri dedicati ad Aldo Moro) di esprimersi con chiarezza contro quel patto della fermezza che portò inevitabilmente alla morte dello statista democristiano.
Perché assunse quella posizione Craxi? Per calcoli politici? Perché così riusciva a svincolarsi dall’abbraccio tra comunisti e democristiani? Perché voleva e doveva dimostrare la sua piena autonomia nei confronti dei comunisti? O perché alla base di quel socialismo riformista vi era l’espressione di un vero umanitarismo che poneva al centro i valori dell’uomo?
Sottolineo questo perché credo che il 1978 fu una data emblematica per Bettino Craxi, il quale sancì un fatto importante, nella visione storica complessiva, che era l’anticomunismo sul piano di una “vertenza” ideologica. Non per caso quella sua posizione impose una riflessione seria e mise il partito comunista, e tutta la sinistra, davanti a responsabilità precise.
Proprio in quell’anno sollevò un dibattito su una figura fondamentale del pensiero riformista. Mi riferisco a Proudhon sul quale scrisse un significativo saggio pubblicato su “l’Espresso”. Ma fece riflettere, in quella temperie, su Giuseppe Garibaldi, il quale non piaceva a Marx e non faceva parte e non fa parte né del marxismo né del comunismo. Fece riflettere su Carlo Rosselli e su tutta una tradizione laico – socialista.
Fece riflettere su uno scrittore messo all’indice da Togliatti e dai comunisti che morì proprio il 1978. Mi riferisco a Ignazio Silone. Il socialista senza chiesa o il cristiano senza chiesa: Silone. Bettino Craxi nel 1984 rese omaggio a Pescina alla tomba di Ignazio Silone. Quel Silone che cercava un’uscita di sicurezza per liberarsi dalla persecuzione comunista dopo essersi liberato dalla persecuzione fascista.
Craxi su Silone scrisse: “… stupisce che i suoi avversari non abbiano mai capito che con Silone essi avevano davanti un osso duro, una coerenza tenace e che contro di lui abbiano scelto di volta in volta la calunnia, l’irrisione, l’ostracismo, la congiura del silenzio senza capire che tutto ciò valeva poco o nulla contro un uomo pronto sempre a dimostrare ciò che asseriva, forte di scienza e d’intelletto, capace di sfidarli di fronte alla storia, come poi è puntualmente avvenuto”.
Proudhon, testimone del socialismo libertario, considerava Marx la “tenia del socialismo” e definiva il comunismo una “assurdità antidiluviana”. Non si era sbagliato Proudhon e non si era sbagliato Craxi già in quel 1978 ad offrirci quella lettura proprio su Proudhon. Molti nella sinistra non la capirono.
Forse sarebbe opportuno rileggere proprio quel saggio che Craxi scrisse su Proudhon. E’ ancora attuale nonostante i decenni passati e i muri crollati. I cattolici non dovrebbero fare a meno di Aldo Moro. Un Aldo Moro che aveva saputo attraversare sia De Gasperi e Sturzo e non Dossetti. Ma i 55 giorni della tragedia dello statista democristiano restano una testimonianza importante per capire i nuovi risvolti di una politica che superava il senso e l’orizzonte stesso del pensiero. D’altronde nella storia della politica e della cultura cattolica c’è ancora una figura ingombrante che è Augusto Del Noce. Del Noce aveva previsto il fallimento del dossettismo.
Moro non fu l’artefice del cattocomunismo. Ci si sbaglia quando si pensa ciò. Fu qualcosa d’altro. Inventò la tenuta cattolica (dopo le sconfitte del 1975 e del 1976 della D.C.) non allontanandosi mai dalla Chiesa e dai valori cristiani cercando di dialogare con i marxisti denudandoli politicamente.
La solidarietà nazionale ha portato al cadavere di Moro tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. Ma anche alle Lettere di Moro dalla prigionia del popolo che restano un documento certo politico e umano di una straordinaria importanza. Non dimentichiamo il ruolo di Prodi, (l’uomo della seduta spiritica), di Andreotti, di Cossiga, di Berlinguer e di quell’ala “pecchiolana” dalla quale sono nati i dirigenti comunisti prima e post comunisti dopo.